L’Italia che sognava il sorpasso: Dino Risi e il boom degli anni ’60

Quell’ inquietudine sottile della vacanza : “Il sorpasso” di Dino Risi

L’Italia del “miracolo economico “ fra voglia di emancipazione e autocompiacimento narcisistico

di Francesco Clemente

 

A mio padre

 

 

“ll sorpasso” è un film del 1962, diretto dal grande Dino Risi. Si tratta di un’opera cinematografica fra le più significative mai girate in Italia, poiché rappresenta uno dei ritratti più verosimili del costume sociale italiano all’epoca del “boom” economico che investì la penisola. Una galleria di personaggi su cui troneggia la strana coppia Gassman-Trintignant, che sciorina recitazione con la disinvoltura di un gelataio  che confeziona gelati al momento. Un film da rivedere e rivedere, dove forse ogni fotogramma dice più di tante parole. Scritte, gridate e anche sussurrate.

Perché questo film

Anche i film, in un modo o nell’altro, ci attendono sulla soglia della porta della nostra maturità, più o meno presunta. Si affacciano nella nostra vita una prima volta e magari neanche ci sfiorano con la loro presenza. E noi a dire e a dirci: sì è un film, ma uno come un altro…due che si incontrano a ferragosto e vanno su e giù per l’Italia centrale…che vuoi che sia. Questo è stato il pensiero che ha accompagnato chi scrive questo articolo, per poi realizzare la portata di questo film, solo qualche anno prima che compisse i quarant’anni. Chi scrive, poi, ricorda come il proprio padre, cultore di cinema con trascorsi da  corsista di operatore cinematografico a Roma proprio negli anni in cui il film fu girato, lo indicasse come una delle pellicole più importanti della storia del cinema italiano. Chiaramente, sosteneva questo fra lo scetticismo del figlio, all’ epoca troppo giovane per capire cosa nascondesse tutta quella normalità che il film narrava con tanta apparente ovvietà.Ognuno, per dirla con Conrad, ha la sua sottile “linea d’ombra”.

La storia

La vicenda è inizialmente ambientata  a Roma, la mattina del Ferragosto 1962,  in un momento in cui la città è quasi del tutto svuotata di persone. Bruno Cortona, interpretato da Vittorio Gassman, è un quarantaduenne aitante ma sfaticato e parolaio, amante della guida sportiva e delle belle donne,  perennemente al volante di una Lancia Aurelia B24 convertibile, impegnato a vagare alla ricerca di un pacchetto di sigarette e di un telefono pubblico. Occasionalmente lo accoglie in casa Roberto Mariani, interpretato da Trintignant, studente di giurisprudenza rimasto in città per preparare gli esami. Dopo aver fatto i suoi comodi, Bruno chiede a Roberto di fargli compagnia: i due, sulla spinta dell’esuberanza e dell’invadenza di Bruno, intraprendono un viaggio in auto lungo la via Aurelia, a velocità sostenuta, che li porterà in direzione della Toscana, a Castiglioncello, raggiungendo mete occasionali sempre più distanti.

Durante il viaggio verso il nord e verso il mare, arriveranno anche a far visita ad alcuni parenti di Roberto, prima, e alla figlia e all’ex-moglie di Bruno, poi. Il giovane Roberto sarà più volte sul punto di abbandonare Bruno, ma sia il caso, sia una certa inconfessabile attrazione, mascherata da una certa arrendevolezza, terrà unita l’assortita coppia di amici occasionali, che significherà per Roberto anche un percorso di iniziazione alla vita. Per lui, infatti, è l’occasione per allontanarsi dai miti e dai condizionamenti adolescenziali e iniziare il ripensamento delle sue relazioni familiari, dell’amore e dei rapporti sociali, sino alla tragica conclusione che si materializza durante l’ennesimo sorpasso avventato da Bruno, da sempre spericolato guidatore dalle velleità sportive: l’auto si scontra con un camion e precipita in un burrone. Bruno si getta fuori dall’auto riuscendo così a salvarsi, mentre Roberto, invece, perde la vita. Quando gli agenti intervengono per l’incidente Bruno confesserà di non conoscere neppure il cognome del suo passeggero.

 

La versione francese, il caso americano, l’iniziale freddezza dell’accoglienza italiana, il definitivo successo

Il sorpasso fu realizzato anche in una versione francese, uscendo proprio in Francia col titolo Le Fanfaron, mentre  negli Stati Uniti con il titolo The Easy Life. In America, poi il film divenne davvero un caso di costume al punto tale che  Dennis Hopper, il regista del cult movie Easy Rider si è ispirato a Il sorpasso per scrivere il suo soggetto cinematografico. In Italia, invece, almeno all’inizio il film non fu accolto con un grande successo di critica. Lo stesso Dino Risi raccontò che alla prima erano presenti solo 50 persone, ma il successo di pubblico arrivò gradatamente grazie al passaparola degli spettatori che avevano assistito alla proiezione. Gli incassi successivi furono eccezionali, il film infatti costò una cifra superiore ai 300 milioni di lire e incassò in 3 anni più di un miliardo di lire. La consacrazione della critica arrivò solo in tempi successivi, dopo la metà degli anni ottanta. Il sorpasso fu un successo non solo italiano ma internazionale, tanto che in Argentina alcuni pensano davvero che la parola “sorpasso” significhi appunto “spaccone”.

Gli effetti del boom economico fra auto, ambizioni sociali, locali notturni, vacanze estive e forme d’intrattenimento

Il film di Dino Risi è l’occasione per avere sotto gli occhi in poche decine di minuti di proiezione uno spaccato fedelissimo non solo dell’Italia dei primi anni ’60, ma anche di ciò che il nostro paese sarebbe diventato sul piano delle criticità sociali e di costume. Insomma, Risi non si limita a descrivere la realtà italiana a lui contemporanea, ma azzarda una proiezione dei suoi sviluppi futuri. Un’opera davvero unica per la tragicità intrinseca che nasconde sotto le mentite spoglie della solita commedia all’ italiana. Uno spaccato della società ormai avviata verso il benessere massificato che si realizza attraverso una cura certosina della descrizione dia alcuni particolari significativi. Primo fra tutti le ambientazioni del divertimento dell’epoca, quelle balere che poi si sarebbero evolute in discoteche e che di fatto erano luoghi dove si esibivano i nuovi italiani medi. Non è un caso che nel film sfilino pezzi musicali notissimi all’epoca, ovvero Quando Quando Quando (Tony Renis / Alberto Testa) di Emilio Pericoli, St. Tropez Twist (Mario Cenci / Giuseppe Faiella) di Peppino Di Capri, Per un attimo (Paolo Lepore e Luigi Naddeo / Gino Mazzocchi) di Peppino Di Capri, Don’t Play That Song (You Lied) (Ahmet Ertegün / Betty Nelson) di Peppino Di Capri, Gianni (Nino P. Tassone / Giuseppe Cassia) di Miranda Martino, Vecchio frak (Domenico Modugno) di Domenico Modugno, Guarda come dondolo (Carlo Rossi / Edoardo Vianello) di Edoardo Vianello, Pinne fucile ed occhiali (Carlo Rossi / Edoardo Vianello) di Edoardo Vianello, brani musicali anche diversissimi fra loro ma di cui alcuni di loro certamente esprimevano il clima vacanziero, la spensieratezza dei momenti liberi, insomma tutto ciò che gli anni del boom economico sembravano promettere a quell’ Italia che ormai si metteva alle spalle le ristrettezza economiche della seconda guerra mondiale. Oltre alla motorizzazione di massa, il boom economico portò anche una diffusione massiccia degli elettrodomestici. Si pensi all’aumento delle vendite dei frigoriferi che passarono dai 500.000 del 1958 agli otre 2 milioni del 1963. Nel film di Risi, Bruno-Gassman prova addirittura ad approfittare di un incidente mortale acquistando frigoriferi  trasportati nel camion coinvolto nel sinistro e afferma di lavorare nel campo dei frigoriferi. Inoltre,anche la villeggiatura, all’inizio degli anni ’60, diventò un fenomeno di massa, grazie alla diffusione proprio delle automobili e alla conquista delle ferie pagate. L’Italia diventa metà di turisti stranieri e nel film questa notazione compare puntualmente.

La metafora del viaggio di evasione: Bruno e Roberto simboli paradossali del passaggio dal vecchio al nuovo

La caratterizzazione dei personaggi di questo film e il modo in cui interagiscono rappresenta qualcosa di paradossale ad un primo sguardo. La logica vorrebbe che lo scapestrato fra i due protagonisti fosse il più giovane, ovvero Roberto-Trintignat, invece è Bruno-Gassman, ovvero il più grande, il quarantenne. Invece, Roberto rappresenta un giovane serioso e poco incline alla spensieratezza, mentre Bruno è l’eterno Peter Pan, sempre pronto a trasgredire. Fra i due, apparentemente lontanissimi per carattere e modi di fare, vi è un’intrigante complicità, filmicamente resa con l’espediente della voce interiore-fuori campo, che è il corrispondente del monologo interiore in ambito letterario. Questa complicità rappresenta l’inspiegabile attrazione che Roberto nutre per Bruno: ne condanna e ne critica gli atteggiamenti, ma ne è intimamente affascinato.  Roberto rappresenta il giovane italiano legato a valori  tradizionali piccolo-borghesi, centrati sul sacrificio che ripaga e la il merito che è sempre riconosciuto, sulle regole che si devono sempre rispettare; Bruno è invece è il prototipo della trasgressione incalzante, della spacconeria che dissacra la tradizione, che mette in soffitta anche la buona educazione per affermare se stesso, per dare sfogo agli istinti. Entrambi, sono, dunque, simboli: Roberto dell’Italia ancora anni ’50, tutta casa, chiesa e sacrificio; Bruno di quella appunto del boom economico, fatta di auto accattivanti da guidare, vacanze da vivere, ristoranti da frequentare, suggestioni erotiche da inseguire. Una certa interpretazione forse fin troppo apocalittica vorrebbe che entrambi rappresentano due identità nazionali, giunte a un punto cruciale della propria storia. La prima, rappresentata da Roberto è  quella legata ai principi, ed è quella che purtroppo sarà sedotta e alla fine morirà; la seconda, rappresentata invece da Bruno è quella furbesca, individualista e amorale. Tutto il film, comunque, è incardinato sul viaggio d’evasione lungo quella via Aurelia che divenne il simbolo della spensieratezza italica nei primi anni ’60. Da quella strada, si deve partire per comprendere l’atmosfera del film.

La via Aurelia

Per avere un’idea chiara di cosa sia stato il film di Risi, si deve partire da una domanda: Che cosa è la via Aurelia? Semplicemente una via di collegamento fra Roma e Ventimiglia, oppure una condizione dell’anima? Si può affermare senza enfasi che la via Aurelia è la strada simbolo delle vacanze. Essa è l’idea stessa dell’evasione, condensa da sola il giorno di Ferragosto, la vacanza per antonomasia, il giorno in cui il mondo si deve fermare per vivere le vacanze. La via Aurelia è la strada che porta via da Roma, si tratta della Strada Statale numero 1, famosa per la sigla SS1. Esce da Roma e si dirige verso Fregene e Santa Marinella e poi si dirige verso nord-ovest in direzione Versilia, per giungere poi in Liguria e poi, infine alle porte della Francia. Per cui, il mondo che i protagonisti incontrano nel loro viaggio è quindi davvero uno spaccato trasversale di quella società romana che collettivamente si metteva in moto ogni domenica per celebrare il rito della festa, tra soste alle stazioni di servizio, lunghe code d’automobili e incidenti frontali. È abbastanza intuitiva la comprensione della scelta di Risi di ambientare il viaggio dei due protagonisti lungo questa fettuccia che porta via dal grigiore sordo di una metropoli svuotata verso le brezza dell’avventura alla portata di tutti.

 

L’Italia attraversata da Bruno e Roberto è sospesa fra passato e futuro, fra città e campagna. Nel film si mette in scena questo rapporto fra “cittadini” e “campagnoli”, ciò avviene precisamente nella scena del passaggio che i due amici concedono ad un anziano contadino che fa l’autostop. Una volta fatto salire, l’anziano è oggetto di derisione da parte di Bruno. Per non parlare, poi della festa a suon di moderno(allora) “twist” che i due incontrano in un’aia, scena che da sola esemplifica come ormai la società dell’intrattenimento abbia raggiunto il mondo rurale, conquistandolo definitivamente. Se, dunque, il ferragosto è inevitabilmente “la vacanza”, lo stare vuoti per forza, senza occupazioni quotidiane incombenti, allora lo spirito di questo giorno è ben sintetizzato dalla battuta di Bruno-Gassman rivolta al giovane Roberto-Trintignat: <<A  Robè, lo sai qual è l’età più bella? È quella che  uno c’ha giorno per giorno. Fino a quando schiatti, si capisce>>. Una filosofia di vita che si potrebbe tranquillamente accostare al Carpe diem oraziano e che  invita tutti, pure i poveracci, a vivere quel giorno in completa libertà. Ma Aurelia è anche il nome del modello di auto che nel film “recita” insieme agli attori.

La Lancia Aurelia

Se il celebre film con Dustin Hoffman  intitolato Il laureato vede come protagonista la mitica Alfa duetto decappottabile, inevitabilmente di colore rosso, Il sorpasso è la pellicola che consacra un’altra auto mitica, sempre italiana e sempre sportiva: la Lancia Aurelia B24. Un’auto che (l’analogia tra il nome della spider e la via consolare non può, anche questa volta, esser casuale) riflette un simbolismo pregnate.  La macchina, infatti, era uscita dalle officine nel 1956 e rappresentava allora il prototipo di un’idea di eleganza e raffinatezza, ma ben presto si trasformò nell’ideale dell’automobile aggressiva, prepotente, truccata nel motore e negli allestimenti, tra cui il famosissimo clacson tritonale che accompagna gran parte delle sequenze filmiche in auto e che da solo rende la spacconeria di Bruno. A ciò si devono aggiungere alcune attenzioni che Risi riserva alla caratterizzazione dell’auto stessa, utilizzata nel film. La fiancata destra mostra ancora le lavorazioni di un’officina di carrozziere, le riparazioni non ancora riverniciate, le cicatrici che dovevano testimoniare le battaglie sostenute dall’auto e dal suo pilota (notare che manca anche uno dei due terminali di scarico della vettura). In definitiva, Dino Risi sceglie non casualmente una Lancia Aurelia, poiché essa rende proprio la corruzione di un’idea, quella fiducia nel miracolo economico che con gli anni andrà a finire in Italia, lasciando il posto a una società nella quale solo i cialtroni opportunisti, come appunto Bruno, e i loro pseudovalori morali diventeranno i soggetti protagonisti di un benessere sociale.

Le immagini  e i contributi bibliografici cartacee  utilizzati sono ricavati dalle fonti seguenti:

https://mr.comingsoon.it/

http://www.ilpiccologeniocreativo.it

http://sensesofcinema.com/

https://invertedcut.wordpress.com/

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http://saffioti.blogspot.it

http://www.lastampa.it

https://upload.wikimedia.org

https://wikipedia.it

 

 

Andrea Giardina, Giovanni Sabbatucci,Vittorio Vidotto, Nuovi profili storici 3, volume 2, editori laterza, 2008, Roma-Bari;“Aurelia, la via simbolo delle vacanze” articolo di Caterina Soffici in “La Stampa”, quotidiano nazionale, numero di martedì 15 agosto 2017;

 

 

 

 

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Alla ricerca della classe perduta

La classe smarrita fra la valanga del consumismo e la dimenticanza di sé

L’attualità di un film su un tema che appare inattuale: “La classe operaia va in paradiso” di Elio Petri

Di Francesco Clemente

“La classe operaia va in paradiso” è un film del 1971 diretto da Elio Petri, scritto in collaborazione col l’indimenticato e insuperato Ugo Pirro. Si tratta di una pellicola che, nonostante la freddezza di molta parte della sinistra italiana di quel periodo, inanellò molti premi fra cui il  Grand Prix per il miglior film al Festival di Cannes nel 1972, il David di Donatello sempre nello stesso anno e due premi speciali per il sommo Gian Maria Volontè e la formidabile Mariangela Melato, interpreti di questo film particolare che per la prima volta, con velleità quasi documentaristiche sul piano della stesa ricostruzione degli ambienti,  accende  una luce sul mondo della fabbrica italiana a cavallo fra gli anni ’60 e gli anni ‘70 .

Nella storia del cinema italiano non sempre le polemiche suscitate da un film hanno assunto i connotati del fatto clamoroso. Certo, alla mente vengono immediatamente le denunce subite da Pasolini, solitamente con capi di imputazione riferiti al vilipendio alla religione. Gli esempi, poi, potrebbero essere altri e annoverarli non sarebbe difficile. Nel caso de La classe operaia va in paradiso siamo di fronte ad un caso diverso, per certi aspetti più stimolante rispetto alla chiassosità dei “casi” giudiziari pasoliniani. Il motivo è presto detto e probabilmente trova la sua spiegazione nella levatura  intellettuale della stessa sceneggiatura. Alla sua uscita, presente in sala, il regista Jean-Marie Straub prese il microfono in pubblico e dichiarò che tutte le copie dell’opera di Petri dovevano essere bruciate seduta stante. Il film raccolse in definitiva un’accoglienza piuttosto algida da parte della sinistra italiana, sia nelle vesti di classe dirigente che di  quella militante nel campo della  critica cinematografica. A suscitare malcontento fu la descrizione dei sindacalisti come sostanzialmente doppiogiochisti, mentre gli studenti di sinistra rappresentati come degli imbonitori ideologizzati. Insomma, la sinistra istituzionale ne uscirebbe praticamente a pezzi.

Per  chi non avesse visto il film è giusto che si accenni  brevemente alla vicenda narrata. Ludovico Massa, detto Lulù, è un operaio trentenne con due famiglie da mantenere, e con già 15 anni di lavoro presso una fabbrica, due intossicazioni da vernice e un’ulcera.  Tifoso del Milan, irriducibile stakanovista, quindi  convinto sostenitore del lavoro a cottimo, grazie al quale riesce a garantirsi un tenore di vita piccolo-borghese, Lulù è coccolato dai padroni, che lo indicano come modello per stabilire i ritmi ottimali di produzione, suscitando così  l’odio dei  colleghi operai per il suo spudorato servilismo. La sua vita continua in questa totale alienazione, che lo porta a ignorare gli slogan di protesta urlati e scritti dagli studenti fuori dai cancelli, finché un giorno ha un incidente sul lavoro e perde un dito. Così, improvvisamente, Lulù si sveglia dal sonno dell’alienazione e prende coscienza dell’incubo della sua misera vita, schierandosi contro il ricatto del lavoro a cottimo, aderendo  alle istanze radicali degli studenti e di alcuni operai della fabbrica, in contrapposizione alle posizioni più concilianti  dei sindacati. Il resto della vicenda vale la pena vederlo, per cui non è conveniente svelarlo.  Con buona pace dei detrattori di questo film, ci si sente in dovere di valorizzarne il rigore della sceneggiatura( basti pensare che è stato girato nella fabbrica Ascensori Falconi di Novara, all’epoca  anche oggetto di una interrogazione parlamentare da parte del comunista Lucio Libertini), l’attualità dei problemi che solleva, nonché la forza della denuncia della deriva dell’antagonismo di classe. Gli esperti di cinema, i critici e gli storici degni di questo appellativo conoscono la caratura intellettuale dello sceneggiatore del film, quel Sergio Piro che collaborò anche a quell’altro capolavoro intitolato Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Per cui è dal suo contributo aureo che si intende partire nell’analisi qui proposta. Basta aprire le pagine di qualsiasi edizione dei Manoscritti economico-filosofici di Karl Marx per accorgersi che in bocca ai protagonisti di questo film, dallo stesso Volontè, fino al mitico “Militina”, interpretato dall’immenso Salvo Randone, si sono proprio le forme di alienazione subite dall’operario nel processo di produzione capitalistica. Nel dialogo fra Lulù(Volontè) e il Militina( Randone) che si tiene al manicomio si affrontano le prime tre forme di questo processo alienante. In quelle battute fulminee, saggio eccezionale di cosa significhi recitare sul serio, oltre che scrivere con credibilità per la fiction, si passano in rassegna appunto l’ alienazione come sottrazione del prodotto ai produttori, l’alienazione come dall’attività lavorativa stessa,  l’alienazione come impoverimento della personalità individuale. La prima delle tre si spiega con la produzione di un oggetto( il capitale, appunto) che in realtà non gli appartiene perché, molto semplicemente non riesce a goderne, per cui tale oggetto finisce per costituirsi come potenza dominatrice nei suoi confronti. La seconda, invece, riguarda il lavoro costrittivo, il lavoro forzato, che comporta il suo progressivo deterioramento professionale.  La terza, dunque, è una diretta conseguenza della seconda, poiché si aliena dalla sua stessa essenza umana, in quanto il lavoro ripetitivo e meccanico non gli appartiene.

Ma il film, almeno secondo il parere di chi scrive, pone delle questioni molto serie circa la quarta forma di alienazione concepita da Marx, quella riferita ai rapporti sociali, sulla quale vale la pena soffermarsi. Questa quarta forma di alienazione riguarda i rapporti fra classe capitalista e classe operaia, facendo emergere l’inevitabile allontanamento reciproco fra queste due classi, dovuto appunto ai  differenti rapporti di produzione. In questo caso, l’alienazione riguarda anche gli stessi operai, divisi fra quelli appunto “cottimisti” e quelli non “cottimisti”, e poi fra quelli “occupati” e quelli “disoccupati”, una condizione che nel film di Petri è ben descritta proprio quando il protagonista Lulù Massa è licenziato dall’azienda per via della sua “conversione” al radicalismo della lotta politica in aperta polemica con i sindacati, all’indomani del suo fatidico incidente che ne cambierà la mentalità. La scarsa solidarietà fra operai, la manovra astuta del sindacato (che sfrutta il licenziamento di Lulù per riaccreditarsi presso quella stessa classe operaria che iniziava a prendere le distanze dalle forme istituzionale di  concertazione in termini contrattuali), sono al centro della pellicola di Petri e non possono che interrogarci sulla possibilità contemporanea di una riorganizzazione delle classi subalterne. Certo, il film presenta alcune forzature, alcune soluzioni a tinte forti, come ad esempio il ricorso all’orwelliana litania che dai megafoni dell’azienda dove si svolgono le vicende per rendere efficacemente la strategia di “indottrinamento” aziendale: « Lavoratori, buongiorno. La direzione aziendale vi augura buon lavoro. Nel vostro interesse, trattate la macchina che vi è stata affidata con amore. Badate alla sua manutenzione. Le misure di sicurezza suggerite dall’azienda garantiscono la vostra incolumità. La vostra salute dipende dal vostro rapporto con la macchina. Rispettate le sue esigenze, e non dimenticate che macchina più attenzione uguale produzione. Buon lavoro. » Ma, al netto della valutazioni critiche, emerge una profezia terribile circa lo sgretolamento di certe comunità di lavoro, che non sono più compatte nella rivendicazione dei loro diritti.                                                                                                                                                 

Tempo fa, una voce non molto ascoltata della sinistra italiana, Mario Tronti, ripropose il tema della “polverizzazione” della classe, ovvero il fenomeno appunto dello smembramento di quel  blocco storico che avrebbe dovuto compattarsi attorno ai suoi bisogni, quindi ai suoi diritti in direzione di una strategia più ampia. Un tema che, di fatto, oggi è di enorme portata, soprattutto se si pensa alla frammentazione che ha subito la classe dei lavoratori nelle aziende( e non), alla precarizzazione diffusa che di fatto ha minato l’ipotesi di una strategia comune di lotta da parte dei lavoratori. Che dire, poi, della denuncia che Petri lancia circa il processo di imborghesimento della classe operaria, sedotta da modelli di vita borghesi, capaci di farle ingoiare le politiche cottimiste e tayloriste pur di soddisfare qualche piccolo sogno proibito? A proposito, ci limitiamo a evidenziare quanto questa premura del regista trovi un riscontro pieno e inequivocabile nell’analisi che Marcuse, decenni fa, aveva compiuto in relazione ai processi di fagocitazione innescati dalla società dei consumi ai danni degli stessi gruppi sociali intenzionati all’antagonismo culturale. Alla luce di ciò, pare davvero profetica l’intuizione di Petri di raffigurare Lulù Massa come anche un accanito tifoso, simbolo di quella che sarebbe stato il proletariato dei giorni nostri, sottopagato e nello stesso tempo inguaribilmente soggiogato dai suoi feticci d’intrattenimento. Che dire, poi, di un’altra faccenda, ovvero del fatto che ancora oggi alcune fabbriche, alcune non proprio piccole, tipo quelle metalmeccaniche e siderurgiche, non appaiono molto distanti da quella descritta nel film, soprattutto in rapporto alle condizioni igienico-sanitarie e della stessa pericolosità delle mansioni da svolgere(Ilva)?  Insomma, in attesa di un nuovo, vero, autentico Karl Marx del terzo millennio , chi si affaccia alla prospettiva della ripresa della lotta al sistema economico si può confortare con le analisi del pur eccellente Luciano Canfora autore de La schiavitù del capitale, saggio nel quale si parte dalla considerazione che  come l’Idra, il mostro mitologico le cui teste, mozzate da Ercole, avevano il potere di rinascere raddoppiandosi, il capitalismo, un tempo solo occidentale oggi planetario, ricompare sulla scena del mondo riproponendo nuove e più sofisticate forme di schiavitù. Una riflessione, quella di Canfora, che si rietine in consonanza con le emergenti esigenze di ripensamento contemporaneo dei rapporti e dei mezzi di produzione e che quindi si può tranquillamente inserire nel solco degli spunti dialettici che il film di Petri anni fa ebbe modo di sollevare. Anzi, proprio confrontandolo con questi nuovi contributi saggistici, si è indotti a rivalutarlo a dispetto della miopia più o meno involontaria che all’epoca della sua uscita subì da parte di non poca intellighenzia militante.

 

 

Le immagini sono ricavate dalle seguenti fonti:

http://ilmiolibro.kataweb.it

http://oubliettemagazine.com

http://giulianocinema.blogspot.it/

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https://www.mulino.it/

https://www.centroriformastato.it

 

 

 

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L’inferno della città eterna

Roma mia, ma chi te riconosce più…

Roma non come Gomorra, ma forse anche qualcosa in più: La denuncia di Sollima del declino della città eterna

di Francesco Clemente

“Suburra” è una pellicola del 2015 diretta  dal  regista Stefano Sollima, nonché  tratta  dall’omonimo romanzo di Carlo Bonini e Giancarlo De Cataldo. Il film, scritto da Stefano Rulli e Sandro Petraglia, ha come protagonisti Pierfrancesco Favino, Claudio Amendola, Elio Germano, Alessandro Borghi, Greta Scarano e Giulia Elettra Gorietti. Il romanzo ed il film prendono il titolo dall’omonimo quartiere dell’Antica Roma, la cui parte bassa era particolarmente nota per i misfatti che vi si perpetravano.

 

Vale la pena soffermarsi su questo film italiano che è comparso nelle sale in un momento particolarmente delicato per la storia della terza repubblica. All’epoca, appena due anni e mezzo fa, vennero mediaticamente  a galla  le magagne delle vicende politico-mafiose relative all’inchiesta denominata “Mondo di mezzo”, che attraverso i  noti criminali Buzzi e Carminati, gettava una luce sinistra sulla commistione fra malavita e politica, fra ambienti delinquenziali e cariche istituzionali, nel quadro di un governo locale, quello della città di Roma appunto, che ha mostrato un volto assolutamente desolante e ammutolente. Prima che il film uscisse, l’opinione pubblica si era già divisa sulla gestione amministrativa  dell’allora sindaco Ignazio Marino a Roma,  impegnato per non pochi giorni in un estenuante ping-pong di scambi di pareri piuttosto vivaci con l’allora premier Matteo Renzi e altri intoccabili del Partito democratico. Qualche irriducibile sofista potrebbe farci notare gli esiti con cui l’inchiesta citata si sia conclusa in termini che non sono proprio quelli del pieno riconoscimento di un fenomeno mafioso a Roma. Motivo per cui, non ci sarebbe neanche motivo di porre troppa enfasi su un film come “Suburra”.

In realtà, non le cose non stanno proprio così perché ciò che Stefano Sollima mette in scena è probabilmente quello che da moltissimo tempo non pochi sapevano e che invece anche un certo apparato mediatico ha provveduto opportunamente ad occultare nel corso degli anni. Nel film attraverso il personaggio interpretato da Amendola, vi è un inequivocabile riferimento ai fatti storici relativi alla Banda della Magliana, per cui proprio la figura dell’attempato criminale di nome “Samurai”( Amendola, appunto), spiega simbolicamente ma in maniera assai credibile tutta la matassa più o meno intuibile dei fatti tristissimi e inconfessabili che si sono tradotti in tangenti, omicidi eccellenti (alcuni commissionati dalla stessa politica), traffici d’armi, gestione illecita degli appalti. Sotto questo profilo, si comprende la portata narrativa di un personaggio come Filippo Malgradi, interpretato da Pierfrancesco Favino(sorprendente per essenzialità d’interpretazione) nei panni di parlamentare corrotto invischiato nella criminalità  proprio attraverso “Samurai”, suo vecchio amico e compagno di militanza politica durante gli anni della strategia della tensione. Al centro dei rapporti fra i due protagonisti, infatti, vi è un progetto di legge sulla riqualificazione delle periferie (del quale Malgradi è promotore) fino alla zona di Ostia, in una cornice di malaffare con fiumi di denaro che bocche fameliche attendono di ingoiare.

Fin qui, in breve, il nocciolo fondamentale della vicenda filmica. Sul piano dell’estetica cinematografica  certamente balza subito agli occhi la forte somiglianza con “Romanzo Criminale”, pellicola di qualche anno prima dove è presente sempre Favino nei panni di “Libano”, soprattutto se si tiene conto degli effetti cromatici fortemente chiaroscurali di volti  spigolosi e ambientazioni lugubri, ma anche delle inquadrature e di alcuni piani-sequenza. Scelte, queste, legittimamente discutibili, nonché sottoponibili a critiche, ma che rivelano una cifra stilistica del regista capace di personalizzare la vicenda filmicamente trasposta. Allo stesso modo, si potrebbe tranquillamente pensare ad un confronto con “Gomorra”, film di Garrone tratto dal noto reportage romanzato di Roberto Saviano. Proprio su questo secondo aspetto, è doverosa una serie di riflessioni di carattere sociale e politico.
Mentre “Gomorra” non ha sconvolto per la novità dei fatti narrati, proprio per gli arcinoti problemi napoletani relativi al fenomeno della camorra, quanto per la crudezza di certe modalità criminali non proprio conosciute al grande pubblico, “Suburra” di fatto colpisce, forse anche di più di “Romanzo criminale”, per aver scoperto quel velo pesantissimo di silenzio sul malaffare romano, sulle dinamiche particolari, sulle sue modalità di azione, praticamente sconosciute a buona parte dell’opinione pubblica italiana. In parole povere, del fenomeno camorristico a Napoli era praticamente impossibile dubitarne, ma della particolare connotazione malavitosa del fenomeno delinquenziale a Roma era quasi del tutto impossibile averne u quadro così credibile e realistico.  Non è un caso che la già citata inchiesta romana, nota come “Mondo di mezzo”, sia scoppiata in un periodo in cui a Roma in pubblica piazza si celebrarono (con tanto di elicottero commemorativo e parenti in corteo) i funerali di un pezzo grosso del clan dei  Casamonica, fra lo stupore del mondo intero, mentre la città affogava fra disservizi e sempre più marginalità a livello internazionale. Che dire poi, dei fatti successivi a quelli della gestione di Marino, ovvero dell’inchiesta che coinvolse quel Marra, influente funzionario del comune di Roma,  che tanto aveva fatto parlare di sé e che di fatto ha offuscato l’immagine immacolata del nuovo sindaco di Roma, quella Virginia Raggi, cui i romani si sono affidati nella speranza di cancellare il marchio dell’infamia del malaffare? Senza, ripercorre troppo analiticamente questa vicenda, ci si limita a ricordarne la portata politica e istituzionale, ovvero la prova provata di una situazione incancrenita nei più intimi gangli dell’amministrazione romana, una peste inestirpabile che dimostrato di sopravvivere a tutte le stagioni politiche, facendosi beffa di qualsiasi proposito di cambiamento. Siamo, in ultim’analisi, di fronte all’inveramento del monito di Pasolini, allorquando egli denunciò il processo di speculazione edilizia, che prendeva di mira le periferie romane  e non solo, che già qualche decennio dopo il secondo conflitto mondiale rivelava una certa pericolosa vitalità. Sappiamo poi, quale esito tragico ebbero quelle invettive pasoliniane e in quale silenzio assordante siano andate a finire.
Il film di Sollima, dunque, lo si deve interpretare come un documento, neanche non tanto romanzato, che testimonia il  tunnel di cornico malessere in cui la capitale d’Italia ha dimostrato di entrare, senza peraltro dare dei veri segnali di ripresa. Un’opera che sembra porre un sigillo su una “sindrome romana”, ormai venuta definitivamente a galla e che stride fortemente con l’immagine di città spensierata e ridente dei ruggenti anni ’80, dove al limite la denuncia si limitava al ritratto di una certa macchiettistica “indolenza” che si poteva scorgere in alcuni fugaci sequenze dei film di Carlo Verdone. Proprio questa crudezza di fatti, o meglio di misfatti, dove la politica si  è mischiata al banditismo ibrido massonico-mafioso( come è stata appunto la Banda della Magliana), dove la sovrapposizione di lecito e illecito è stata legittimata dalla “ratio” superiore del compromesso fra le parti coinvolte, ha fatto piombare nello sconforto  non solo la popolazione comune, ma anche i mitici testimonial della Città eterna, ovvero quei romani eccellenti come Gigi Proietti, lo stesso Carlo Verdone, Antonello Venditti che hanno sempre ostentato con orgoglio  la loro appartenenza anagrafica. Insomma, un giorno ci si sveglia e ci accorge che Roma si è imbruttita, fra lo stupore di tutti noi, magari ostinatamente legati ad un’immagine che non c’è più da tempo ma che interpella inesorabilmente tutta la società italiana nelle sue responsabilità soprattutto morali. Fra le tante scene del film di Sollima che si potrebbero scegliere per esprimere questo concetto, forse una su tutte s’impone: quella che ritrae papa Ratzinger nell’atto delle dimissioni. Un’immagine esemplare della resa in termini morali, tanto eclatante quanto sconfortante, il segno di un’eclisse epocale, la dismissione completa di tutto.

 

Le immagini son ricavate dalle fonti seguenti:

https://www.youtube.com/

https://cinema.fanpage.it/

https://www.comingsoon.it/

http://www.lavocedeltrentino.it/

http://www.ilpost.it/

http://realityshow.blogosfere.it/

 

 

 

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