L’indomito domandare e la tenera attesa: il Vangelo secondo Pasolini
« Il miglior film su Cristo, per me, è Il Vangelo secondo Matteo, di Pasolini. Quando ero giovane, volevo fare una versione contemporanea della storia di Cristo ambientata nelle case popolari e per le strade del centro di New York. Ma quando ho visto il film di Pasolini, ho capito che quel film era già stato fatto. »
(Martin Scorsese, intervista a La Civiltà Cattolica, quaderno 3996, 24 dicembre 2016.)
Le definizioni sono- per inesorabile destino- di grande utilità pratica ma anche troppo semplici per qualsiasi cosa e per qualsiasi circostanza. Ciò vale a maggior ragione per le opere senza tempo, quelle che a distanza di decenni mozzano ancora il fiato per espressività e spunti estetici sorprendentemente attuali. Nell’ ambito della cinematografia italiana, Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini occupa senza dubbio un posto particolare, per innumerevoli motivi, non ultimi i riconoscimenti tardivi che la pellicola ha conosciuto nel corso degli anni, ma anche per il valore che fin dagli inizi è stato notato dalla critica attenta e scevra da pregiudizi. Il film è ammutolente, nel senso che induce al silenzio meditativo dell’incontro con qualcosa di sconvolgente, un’effetto che Pasolini riesce a sortire attingendo a tutta l’espressività di cui è capace, sfoderando una gamma di tagli chiaroscurali decisi, che lasciano sbigottiti per come affondano nella psicologia dello spettatore.
Il motivo del film e le vicissitudini della produzione: la casuale lettura del vangelo da parte di Pasolini
L’idea de Il Vangelo secondo Matteo ha davvero risvolti singolari, poco noti, ma che strappano anche qualche sorriso compiaciuto a chi poi ne viene a conoscenza. Il tutto nasce dalle solite impronosticabili uscite di Pasolini, spesso avvezzo a fughe solitarie per i vari luoghi dell’Italia. In una di queste, il caso o il destino volle che un giorno Pasolini arrivasse ad Assisi quasi senza volerlo coscientemente. In quel luogo giunse il 2 ottobre 1962, proprio lì si ricordò che circa un mese prima aveva ricevuto un invito per partecipare a un convegno di cineasti indetto dalla Pro Ci- vitate christiana. Ma la storia ci dice che a quell’ invito Pasolini avesse risposto in modo infastidito, non sopportando notoriamente gli atteggiamenti farisaici di chi-ai suoi occhi-non rivelava una coerenza fra le intenzioni religiose e una condotta esattamente contraria ad esse. Sempre il caso o il destino volle che quel giorno ci fosse proprio papa Giovanni XXIII, motivo per il quale Pasolini decise di non sovrapporsi alla massima autorità del cattolicesimo romano, preferendo andare alla Cittadella della Pro Civitate, dove prese una stanza. Allungando involontariamente la mano sul comodino, prese il libro dei Vangeli, iniziando a leggerlo dall’ inizio, cioè dal vangelo di Matteo. Quel giorno nacque, di fatto, il film.
Un attore sindacalista attorniato da intellettuali e persone comuni
La scelta di Pasolini di tratteggiare un Cristo “poco cattolico”, almeno secondo l’immaginario e l’iconografia comune, lo conduce-al giudizio di chi scrive-ad una visione paradossalmente più vicina al verosimile. Se, stando alle cronache religiose, Gesù Cristo era praticamente un palestinese, buon senso suggerisce che non vantasse occhi cerulei e fluente chioma bionda o castano-chiaro, come poi la versione di Zeffirelli quasi quindici anni più tardi contribuì a fissare quasi indelebilmente nelle menti del pubblico. Pasolini con questo film dimostra di aver imparato la lezione di geografia.
La riscoperta del Sud che recita insieme agli attori
Fra i tanti aspetti del film che meritano di essere rimarcati, vi è la scelta dell’ambientazione delle vicende narrate. Un aspetto che non si spiega con esigenze freddamente scenografiche, ma che rivela la presenza di un messaggio profondo che Pasolini intende lanciare all’ intera civiltà occidentale. In una fase storica nella quale l’Italia borghese e piccolo-borghese conosce i frutti post-bellici del consumo di massa, l’esplodere della spensieratezza del boom economico, fatta di frigoriferi e nuove forme di intrattenimento, l’arretratezza del sud appare come un problema di cui non parlare troppo, da accantonare come la polvere sotto il tappeto, un luogo da “coprire”. All’epoca dei governi democristiani, qualche autorità politica parlò di “Matera, vergogna d’Italia”, a conferma delle difficoltà di affrontare questioni che già con l’unità d’Italia avrebbero meritato ben altre risposte sociali. Pasolini, invece, ritraendo questa città della Basilicata, ne aveva già intravisto all’epoca il fascino ieratico delle gravine, la sua naturale conformazione geologica votata a custodire quel “sacro” messo al bando dalla civiltà del progresso: un modo elegante e silenzioso per dirci che se “Dio è in ogni luogo”, questo valeva anche e soprattutto per Matera. Se si pensa poi che al 1964 risale uno scritto del filosofo francese di orientamento cattolico Gabriel Marcel, intitolato Il sacro nell’età della tecnica, s’intuisce come Pasolini fosse anche a sua stessa insaputa nel pieno di un dibattito culturale di altissimo livello, incardinato su questioni antropologiche cruciali e ben al di là dell’opinionismo politico-ideologico, cui tuttavia non mancava di spiccare per l’originalità delle sue posizioni. Forse, lo stesso riconoscimento a più di 50 anni di distanza a questa città della Basilicata di “Città della cultura” nel gennaio 2019, appare come una delle tante premonizioni pasoliniane, all’epoca passata praticamente sotto il più completo silenzio. Ma non vi è solo Matera e le sue gravine a recitare nel film di Pasolini, bensì tante altre località meridionali, di cui si perdono le inevitabili differenze grazie ad un montaggio lirico capace di sfumarle l’una nell’altra: il cortile interno del Castello di Gioia del Colle, location per la danza di Salomè; Barile e Lagopesole (la scena del sinedrio è girata nel cortile interno del Castello di Lagopesole), i Sassi di Matera (trasformati in Gerusalemme);la Calabria, in particolare a Cutro e Le Castella; il Lazio, in particolare a Chia (frazione di Soriano nel Cimino, Viterbo); la Puglia, in particolare a Ginosa nella Gravina, Massafra (trasformata in alcuni luoghi della Palestina), Manduria, Castel del Monte (la cacciata dal tempio, con i sacerdoti che assistono agli eventi), Gioia del Colle (in quest’ultima località il regista girò l’episodio di Erode e Salomè, ambientato nel castello, con la danza di Salomè che si svolge nell’ala nord della corte del castello stesso), Santeramo in Colle (l’annunciazione, parte del discorso delle beatitudini, l’avvicinamento a Gerusalemme);la Sicilia, in particolare la valle dell’Etna (tentazioni nel deserto). Basterebbe questa sequenza di località, ricattate artisticamente dalle intuizione di Pasolini, per parlare di una sintonia evidente fra il regista e il sud negletto dell’Italia prossima ventura votata al consumismo. Eppure, è doveroso rimarcare ancora un altro elemento che dimostra la capacità di Pasolini di guardare il sud “dal di dentro”: la sottolineatura musicale di alcune scene (con protagonisti poveri, sfruttati e derelitti) con brani blues-gospel. Una trovata che appare anticipare quanti nella musica degli anni settanta e ottanta in Europa e in Italia hanno parlato di “world music”, di aree geografiche lontane ma accomunate dalla stessa sensibilità musicale, in una parola: dei tanti “sud” che si trovano uniti in una grande, immensa anima sonora. Un’ altro, stupefacente particolare che contribuisce a distanza di decenni di avere un quadro più completo di questa pellicola cinematografica e del suo quasi inesauribile significato estetico.
Valore dell’opera
Sulla religiosità inconfessata o inconsapevole di Pasolini molto si è scritto e spesso con giudizi poco sereni. Se da una parte, infatti, lo scrittore di Ragazzi di vita è stato il bersaglio preferito della frange politiche della destra più bigotta e più o meno apertamente fascista, dall’altra non si deve tacere la diffidenza con cui è stato sempre considerato non solo dagli organi del Partito Comunista italiano, nonché da esponenti ufficiali della cultura marxista, spesso operanti nel campo della critica letteraria. Si pensi, ad esempio, alle divergenze dichiarate di un letterato come Edoardo Sanguineti nei confronti proprio di Pasolini su temi come il passato contadino e di come esso debba essere considerato. Rimane il fatto che questo Vangelo secondo Matteo esprime tutto il fascino che la figura del Cristo esercita su un ateo/agnostico come Pasolini, che rivela, suo malgrado, di essere sospeso nelle orbite della ricerca di un Sacro “deconfessionalizzato”, spoglio delle sovrastrutture ipocrite della religione troppo incline alla gestione del mondo e quindi “desacralizzata”. Un film per non credenti, certamente. Ma anche un film per pseudo-credenti, per quanti s’impigriscono in una visione troppo consolatoria del Cristo, annacquando la tensione struggente fra umano e divino che la sintesi cristica ha tragicamente rappresentato per l’intera umanità. Per questo è stuzzicante pensare che in soccorso di Pasolini, corra papa Benedetto XVI(per tutti papa Ratzinger) che qualche anno fa dichiarò che gli atei autentici e in buona fede fossero più vicini a Dio di quanto non lo siano i falsi credenti. Una rassicurazione efficace per quanti, appunto, confidano più nel papa che nel Cristo.