La premiata ditta Sorrentino-Servillo è un’accoppiata ormai entrata di diritto nella storia del cinema italiano e internazionale d’autore. Sfogliando i titoli che hanno firmato insieme c’è l’imbarazzo della scelta, per cui fan e critica possono tranquillamente dividersi su quel sia il loro miglior film. Né tanto meno si potrebbe obiettare con facilità di argomenti se qualcuno facesse notare che la Grande Bellezza abbia stregato Hollywood qualche anno fa: di fatto vinse l’oscar come miglior film straniero. Ma, al netto di una valutazione puramente estetica, come lo stesso Paolo Sorrentino ebbe modo di confidare ad un’intervista rilascia a Minoli, sempre qualche anno fa, Il divo( 2008) possiede un valore particolare: secondo il regista napoletano, la sua creatura più pregiata. Senza addentrarci in una impossibile soluzione all’ arcano, è tuttavia necessario mettere in risalto qualcosa di questa densissima pellicola, se non altro perché all’ epoca della sua prima uscita suscitò il disappunto manifesto e sincero del diretto interessato, cosa davvero rara.
Andreotti, infatti, è passato alla storia per la sua impassibilità di fronte a qualsiasi imitazione, parodia o satira subita, cui rispondeva sempre con un disarmante sarcasmo all’ acido muriatico. Sotto questo profilo, non fece eccezione la canzone che Francesco Baccini gli dedicò nel 1992, intitolata Giulio Andreotti: un tormentone pop, dove si giocava sul pregiudizio verso colui che-a detta sua- non è stato accusato solo dello scoppio delle guerre puniche. Eppure, questo film girato da un allampanato regista napoletano pare abbia strappato un fugace ma autentica stizza rabbiosa al “divo Giulio”. Un risultato che probabilmente vale da solo un intero Oscar. Insomma, alla fine della proiezione, è naturale che sorga la domanda su chi sia stato davvero Giulio Andreotti. Per azzardare una risposta, si può partire da un’altra domanda: Che cos’ è davvero il potere? Oppure, in cosa consiste il vero potere? Per anni-come lo stesso Tony Servillo-Andreotti afferma nel film parlando di se stesso- “zio Giulio”(come lo appellavano bonariamente i romani) è stata l’inconfessabile, mostruosa contraddizione del potere in Italia: fare il male per assicurare il bene. In altre parole, l’esercizio sistematico e asettico di un male necessario per assicurare la stabilità del quotidiano.
Andreotti(esattamente come lo stesso Servillo che lo interpreta nel film ai limiti della pensabilità per qualsiasi attore esistente sulla terra) aveva le sembianze di un impiegato, del ragioniere della porta accanto, di un compassato uomo di mezza età. Eppure è stato lo snodo delle questioni cruciali della storia repubblicana del dopo-guerra in Italia, nonché delle grandi manovre diplomatiche della guerra fredda. Quando Oriana Fallaci lo intervistò, scrisse di aver provato una sensazione stranissima, come se dei lacci sottili la inchiodassero alla sedia senza che se ne accorgesse. Andreotti, era di fatto questo: un uomo talmente addentro alle questioni di potere da potersi permettere il lusso di un’ironia immarcescibile, tipica di chi maneggia il veleno con cura senza compiere il fatale errore di ingurgitarlo. Insomma, Andreotti non parlava: agiva. Andreotti non faceva proclami: alludeva. Andreotti non piangeva: tollerava. D’ altronde è stato l’unico vero potente della prima repubblica ad uscire indenne dal ciclone di Mani Pulite, a differenza di Bettino Craxi che pagò amaramente la sua arroganza e la sindrome da identificazione totalizzante col potere.
La verità è pericolosa-dice Andreotti-Servillo- e c’è da credergli, perché la verità vera è sempre sovversiva e non obbedisce a nessun ordine superiore ma solo all’ anarchismo della coscienza individuale. Un altro elemento meritevole di essere evidenziato è più che altro un dettaglio di recitazione. In occasione della morte di Evangelisti, uno dei suoi celebri bracci-destri, lo spettatore assiste a qualcosa di veramente inquietante. Chiunque quando deve girarsi per tornare indietro verso il luogo dal quale è venuto, è portato a fare perno su stesso e appunto a dare le spalle a luogo dove è giunto in precedenza. Detto in parole povere: è costretto ad cambio di marcia di 180 gradi. Andreotti-Servillo invece no: torna indietro senza mai dare le spalle, con una camminata legnosa a gambero. Un dettaglio magistrale dell’interpretazione di Servillo che si muove come una marionetta tirata da un filo invisibile. Una metafora sottilissima: il potere va assecondato e Andreotti lo fa, perché egli stesso è “tirato all’indietro” da una forza oscura cui si deve ciecamente obbedire. Ma oltre a tutto ciò, si deve aggiungere ancora un altro particolare: l’Andreotti de Il divo è un uomo che si preoccupa sempre di essere un uomo culturalmente credibile, un personaggio che tiene moltissimo alla sua statura di statista. Un elemento che-per chi scrive-costituisce forse il vero spartiacque fra la prima e la seconda repubblica relativamente ai gruppi dirigenti: la caratura culturale delle diverse cariche istituzionali. L’era berlusconiana o ulivista ha mantenuto solo per qualche anno dopo la caduta del muro di Berlino questi livelli di credibilità culturale quale requisito per la classe dirigente. Già a partire dagli duemila quest’ultima ha dimostrato di privilegiare un certo dilettantismo ai limiti dell’improvvisazione, motivo per cui Andreotti e altri notabili della prima repubblica oggi come oggi appiano a volte come dei veri giganti della politica. In ultimo la religione. Si tratta di una costante della vita del vero Andreotti e lo è anche in questo film monumentale di Sorrentino, dove oltre ai celebri dialoghi con gli ecclesiastici assistiamo all’originale declinazione dei precetti ascetici di San Bernardo che Andreotti dimostra di fare, allorquando ammaestra i familiari su come affrontare il clima pesante inaugurato dalla stagione dei processi per mafia che ha subito nel corso della sua esistenza. San Bernardo consiglia-dice Andreotti-Servillo- di “vedere tutto, sopportare molto e correggere una cosa alla volta”.
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