Raccontarsi da dentro: il Sud secondo chi non si sente meridionale

I movimenti invisibili e silenziosi del Sud: Quattro voci intellettuali per dire ciò che si ha difficoltà a vedere del nostro paese

Di Francesco Clemente

“Attenti al sud” è un libro-testimonianza firmato da Pino Aprile, Maurizio De Giovanni, Mimmo Gangemi e Raffaele Nigro, pubblicato per i tipi della casa editrice Piemme nel 2017. L’obiettivo della pubblicazione è quello di raccontare il Sud dell’Italia così come si presenta oggi nelle sue manifestazioni sociali e culturali, fra dati sorprendenti e tragiche conferme, per accantonare gli stereotipi sempiterni sulla questione meridionale e abbandonarsi alla narrazione della realtà, nel tentativo di onorarla al di là della pervicacia dei pregiudizi e delle solite risposte sterili a problemi che, al contrario, meritano l’attenzione di tutti.

Vale la pena compiere qualche precisazione sul riproporsi nel panorama editoriale nostrano dell’ultimo decennio circa l’arcinota “questione meridionale” ad opera di giornalisti e di storici italiani, come lo sono Pino Aprile e Gigi di Fiore per le rispettive categorie di appartenenza. Spesso accusati di essere portatori di una visione   passatista, nonché sterile sul piano delle implicazioni politiche e civili, per via del loro velleitario tentativo di rimettere in discussione le modalità con cui è avvenuta l’unificazione nazionale italiana, Pino Aprile and Friends   sarebbero addirittura per qualcuno addirittura espressione di un folkloristico rigurgito neoborbonico, smanioso di far sventolare anacronisticamente la bandiera gigliata della deposta monarchia napoletana. Attenti al sud sembra un libro scritto apposta   per questi detrattori di professione, oltre che per gli inguaribili disinformati. Il perché lo si capisce dalle testimonianze dei quattro intellettuali che hanno vergato queste pagine (fra cui appunto lo stesso Pino Aprile), dal tono con cui ognuno di loro tenta di restituire uno spicchio di Sud a quanti del Sud non sono oppure non lo hanno mai conosciuto. Chi pensa di trovarvi   un’appassionata difesa acritica del nostro mezzogiorno, certamente può rimanere deluso, allo stesso modo quanti in malafede pensano di trovarvi la solita retorica sull’orgoglio ferito del meridionale eternamente risentito. Nessuno dei quattro scrittori in questione   si è sognato di negare gli ancora perduranti problemi del mezzogiorno, o addirittura di negarli, oppure di parlarci di problemi ormai risolti, o  che le nostre regioni “meridionali” siano dei modelli elvetici di efficienza nella quotidianità. Piuttosto, si tratta di un libro che fissa con onestà e coraggio alcune cose non proprio scontate. In primo luogo, il fatto che il Sud ha tante ombre ma e anche capace di bagliori inopinabili, di scatti di risposta quasi miracolosi, motivo per cui esso è davvero il laboratorio nazionale per discutere e meditare su problemi che tranquillamente potrebbero affettare altre zone dello stivale italico. Il Sud è una dimensione problematica, esso è, se vogliamo una metafora della stessa “Realtà”, che presenta sempre innumerevoli e inimmaginabili risvolti, non sempre chiari al primo sguardo. Sicché il punto è trovare la pianta nel deserto, la speranza nella disperazione, la vita dentro la morte, senza raccontare frottole ma riannodando le testimonianze, i fatti, gli eventi che attualmente attraversano la Puglia, la Calabria, Napoli, la(ancora) semisconosciuta Basilicata. Fenomeni non sempre uniformi, che si segnalano per tendenze opposte, prime fra tutte la tendenza a fuggire dalle terre d’origine oppure a rimanere nonostante tutto e tutti, cui si aggiunge la paradossale coesistenza di manifestazioni malavitose e vitalità culturale ritrovata come nel caso della Napoli raccontata da De Giovanni, oppure il valore praticamente ancora sconosciuto del patrimonio culturale della Basilicata di Raffaele Nigro. In ultima analisi, lasciando al lettore la sua legittima curiosità, sarebbe troppo facile asserire che queste pagine dovrebbero leggerle i cittadini del settentrione italiano, soprattutto alla luce della considerazione che non sempre ciò che è geograficamente lontano risulti sempre psicologicamente inaccessibile. In tutta onestà, sono pagine che dovrebbero stimolare l’interesse di molti meridionali, soprattutto quelli rassegnati o quelli dediti alla narrazione classica sui mali del Sud, neoconvertiti a redivive teorie lombrosiane,   quelli che hanno occhi solo per l’industrialismo( oggi tristemente declinante) e lo yuppismo economicistico. In ultima analisi,per quei meridionali che hanno dimenticato, o peggio, rimosso se stessi e soprattutto la verità, in un contesto contemporaneo sempre più segnato dalla semplificazione banalizzante o da meccanismi perbenistici di acquietamento delle coscienze. Le immagini sono state ricavate dalle fonti seguenti: https://www.macrolibrarsi.it

La rivoluzione mediatica di un mistero italiano

Effetti e suggestione della spettacolarizzazione della cronaca

Il caso Moro e la madre di tutte le tragedie mediatiche

di Francesco Clemente

“Il caso Moro: cronaca di un evento mediale” è un saggio sulla comunicazione di Ilenia Imperi edito da Franco Angeli nel 2016, riguardante la vicenda di Aldo Moro e del suo sequestro, che terminò tragicamente. Il volume, quindi, tenta di ricostruire la particolare modalità narrativa di questa vicenda che, per la prima volta in Italia, ribaltava completamente la presentazione del fatto-notizia, facendolo diventare molto di più di semplice fatto di cronaca.

A distanza di ben quasi 40 anni  precisi, il 16 marzo 1978, il giornalista Paolo Frajese condusse l’edizione straordinaria del TG 1 della mattina nella quale si annunciava la strage di via Fani, o meglio i fatti relativi all’agguato del sequestro di Aldo Moro ad opera delle brigate rosse. Da quel momento, l’Italia visse 55 giorni di una continua narrazione su questo evento clamoroso, in un continuo flusso di notizie che annullò la distanza fra dimensione privata e dimensione pubblica della e nella vita degli italiani, producendo  uno strano effetto(fino ad allora mai sperimentato dall’opinione pubblica) in virtù del quale, di Moro e della sua tragedia se ne parlava in continuazione, praticamente dappertutto. Bastava salutarsi anche fra semplici conoscenti, per poi snocciolare ipotesi, dispiacere e speranza circa questa vicenda assurda.

Cosa produsse tanta partecipazione, al punto che gli italiani si sentirono così coinvolti nel profondo? Una risposta plausibile la fornisce Ilenia Imperi nel suo libro intitolato Il Caso Moro: cronaca di un evento mediale, dove appunto si prende le mosse dalla constatazione della centralità svolta dai media nello sviluppo della vicenda stessa. Una vera  rivoluzione sul piano della comunicazione dei fatti di cronaca, in un deflagrare di piste narrative, di un rincorrersi di annunci, al ritmo di un lunghissimo film giallo non inventato, ma vissuto ai limiti della presa diretta. Quella storia inaugurò l’uso spettacolarizzante che i gruppi terroristici potevano esercitare, qualora fossero riusciti a tenere sotto scacco il sistema di potere  coinvolto. In questo caso, esemplare fu il botta e risposta fra i comunicati dei brigatisti e quelli dell’allora governo. La prospettiva della Imperi sulle modalità con cui all’epoca dei fatti fu mediaticamente raccontato il caso Moro, un vero e proprio social drama aperto alla continua opinabilità dei pareri, schiude una serie di suggestioni davvero stimolanti, soprattutto se declinate all’interno del  calderone mediatico contemporaneo.

Il saggio, infatti, enfatizzando il ruolo all’ epoca svolto dalla narrazione televisiva  ci interroga su una questione fondamentale: in che termini si può parlare di “diretta” televisiva dei fatti storici? La testimonianza mediatica e televisiva non impone forse un ripensamento dell’oggettività del racconto, proprio alla luce della capacità di intervento manipolatorio creato dal montaggio televisivo e dalle tecniche di ripresa? Che dire, poi della sinergia comunicativa rappresentata all’epoca da televisione e giornali, mentre oggi anche dal web nella costruzione dei fatti all’interno dell’immaginario di ognuno?  Ne viene fuori un contributo intellettuale dove il caso Moro si presenta come archetipo dei racconti mediatici delle tragedie politiche e sociali successive a1978 che avrebbero calamitato l’attenzione di milioni di spettatori, più o meno consapevolmente intenzionati ad informarsi. Sotto questa lente d’ingrandimento la vicenda di Aldo Moro dimostra di essere un unicum: il modello della contemporanea tragedia raccontata dai media.

Perciò, non sembra peregrino sostenere che le tragedie mediatiche contemporanee come quelle che vedono da qualche anno come protagonista l’estremismo islamico di marca Isis, si pensi alla strage della redazione di Charlie Hebdo a Parigi, fino allo stesso crollo delle Twin Towers nel 2001 per non parlare della telenovela dell’inseguimento di Osama Bin Laden, all’indomani di quella tragedia newyorkese che aveva tutto il sapore dell’attacco dei marziani alla terra, siano “prodotti” di una concezione della comunicazione pubblica di fatti eclatanti perfettamente nel solco di quella vicenda italiana di 40 anni fa. Il martirio di Moro, dunque, come sacrificio dalle ancora inesplorate conseguenze, non solo strettamente politiche e sociali, ma anche di tipo comunicativo di fatti di cronaca nerissima, dove lo spettatore è quasi sottratto dal suo ruolo di spettatore e pare in balia di strattonate da parte di opinionisti che ne tentano una definitiva conversione alla loro parziale versione dei fatti.

La rivoluzione mediatica di un mistero italiano

Effetti e suggestione della spettacolarizzazione della cronaca

Il caso Moro e la madre di tutte le tragedie mediatiche

di Francesco Clemente

“Il caso Moro: cronaca di un evento mediale” è un saggio sulla comunicazione di Ilenia Imperi edito da Franco Angeli nel 2016, riguardante la vicenda di Aldo Moro e del suo sequestro, che terminò tragicamente. Il volume, quindi, tenta di ricostruire la particolare modalità narrativa di questa vicenda che, per la prima volta in Italia, ribaltava completamente la presentazione del fatto-notizia, facendolo diventare molto di più di semplice fatto di cronaca.

A distanza di ben quasi 40 anni  precisi, il 16 marzo 1978, il giornalista Paolo Frajese condusse l’edizione straordinaria del TG 1 della mattina nella quale si annunciava la strage di via Fani, o meglio i fatti relativi all’agguato del sequestro di Aldo Moro ad opera delle brigate rosse. Da quel momento, l’Italia visse 55 giorni di una continua narrazione su questo evento clamoroso, in un continuo flusso di notizie che annullò la distanza fra dimensione privata e dimensione pubblica della e nella vita degli italiani, producendo  uno strano effetto(fino ad allora mai sperimentato dall’opinione pubblica) in virtù del quale, di Moro e della sua tragedia se ne parlava in continuazione, praticamente dappertutto. Bastava salutarsi anche fra semplici conoscenti, per poi snocciolare ipotesi, dispiacere e speranza circa questa vicenda assurda.

Cosa produsse tanta partecipazione, al punto che gli italiani si sentirono così coinvolti nel profondo? Una risposta plausibile la fornisce Ilenia Imperi nel suo libro intitolato Il Caso Moro: cronaca di un evento mediale, dove appunto si prende le mosse dalla constatazione della centralità svolta dai media nello sviluppo della vicenda stessa. Una vera  rivoluzione sul piano della comunicazione dei fatti di cronaca, in un deflagrare di piste narrative, di un rincorrersi di annunci, al ritmo di un lunghissimo film giallo non inventato, ma vissuto ai limiti della presa diretta. Quella storia inaugurò l’uso spettacolarizzante che i gruppi terroristici potevano esercitare, qualora fossero riusciti a tenere sotto scacco il sistema di potere  coinvolto. In questo caso, esemplare fu il botta e risposta fra i comunicati dei brigatisti e quelli dell’allora governo. La prospettiva della Imperi sulle modalità con cui all’epoca dei fatti fu mediaticamente raccontato il caso Moro, un vero e proprio social drama aperto alla continua opinabilità dei pareri, schiude una serie di suggestioni davvero stimolanti, soprattutto se declinate all’interno del  calderone mediatico contemporaneo.

Il saggio, infatti, enfatizzando il ruolo all’ epoca svolto dalla narrazione televisiva  ci interroga su una questione fondamentale: in che termini si può parlare di “diretta” televisiva dei fatti storici? La testimonianza mediatica e televisiva non impone forse un ripensamento dell’oggettività del racconto, proprio alla luce della capacità di intervento manipolatorio creato dal montaggio televisivo e dalle tecniche di ripresa? Che dire, poi della sinergia comunicativa rappresentata all’epoca da televisione e giornali, mentre oggi anche dal web nella costruzione dei fatti all’interno dell’immaginario di ognuno?  Ne viene fuori un contributo intellettuale dove il caso Moro si presenta come archetipo dei racconti mediatici delle tragedie politiche e sociali successive a1978 che avrebbero calamitato l’attenzione di milioni di spettatori, più o meno consapevolmente intenzionati ad informarsi. Sotto questa lente d’ingrandimento la vicenda di Aldo Moro dimostra di essere un unicum: il modello della contemporanea tragedia raccontata dai media.

Perciò, non sembra peregrino sostenere che le tragedie mediatiche contemporanee come quelle che vedono da qualche anno come protagonista l’estremismo islamico di marca Isis, si pensi alla strage della redazione di Charlie Hebdo a Parigi, fino allo stesso crollo delle Twin Towers nel 2001 per non parlare della telenovela dell’inseguimento di Osama Bin Laden, all’indomani di quella tragedia newyorkese che aveva tutto il sapore dell’attacco dei marziani alla terra, siano “prodotti” di una concezione della comunicazione pubblica di fatti eclatanti perfettamente nel solco di quella vicenda italiana di 40 anni fa. Il martirio di Moro, dunque, come sacrificio dalle ancora inesplorate conseguenze, non solo strettamente politiche e sociali, ma anche di tipo comunicativo di fatti di cronaca nerissima, dove lo spettatore è quasi sottratto dal suo ruolo di spettatore e pare in balia di strattonate da parte di opinionisti che ne tentano una definitiva conversione alla loro parziale versione dei fatti.




Chiedete a Picone perché oggi siamo così

Chiedete a Picone perché oggi siamo così

L’affresco agrodolce dell’Italia dell’aumento del debito pubblico

 

Di Francesco Clemente

Per capire dov’è giunta l’Italia di oggi merita rivedere il film di Nanni Loy del 1983, “Mi manda Picone”. Una pellicola che descrive “in presa diretta”, in contemporanea non a posteriori, alcuni dei mali che ci portiamo dietro da quando si è cominciato a pensare che si potessero avere due auto, due appartamenti e tutto insomma doppio.

Se intellettuali, politici, uomini di buona volontà di oggi – noi tutti, insomma – avessimo voglia di comprendere quale tumore da 40 anni ci costringe a cure palliative incapaci di debellare il male, ma solo a riprodurlo in mezzo a qualche distrazione, faremmo bene a rivedere un film del 1983 del regista di origine sarda Nanni Loy, un equivalente postbellico di Voltaire dal fare allampanato di cui non si può dimenticare la stralunata ed etnografica trasmissione, antesignana delle candid camera, Specchio segreto (1965). Il film è Mi manda Picone, interpretato da Lina Sastri e Giancarlo Giannini, con la partecipazione anche di Aldo Giuffré, Leo Gullotta e Carlo Croccolo, uscito nelle sale appunto nel 1983, lo stesso anno in cui si concluse il processo Moro con l’ergastolo a 32 brigatisti rossi, facendo presagire l’uscita dagli anni bui della strategia della tensione e l’inizio di un periodo di spensieratezza consumistica – indotto dalla crescita del PIL nazionale in concomitanza con l’aumento della spesa pubblica, con relativo deficit che fa ancora pesare i suoi effetti al giorno d’oggi – sintetizzato nell’espressione «la Milano da bere».

Ma è anche l’anno della scomparsa in circostanze misteriose di Emanuela Orlandi, figlia di un dipendente del Vaticano e, soprattutto, l’anno in cui a Napoli vennero emessi 856 ordini di cattura contro uomini politici, avvocati e imprenditori accusati di collegamento con la Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo, fra i quali spiccava il nome di Enzo Tortora, la cui odissea giudiziaria meriterebbe ancor oggi di essere ricordata.  Benché il film prenda avvio dall’episodio avvenuto nel corso di una seduta del consiglio comunale di Napoli durante la quale l’operaio Pasquale Picone (Tommaso Paladino) si cosparge di benzina e si dà fuoco per protestare contro il suo licenziamento all’Italsider, Mi manda Picone passa ancora per una felice commedia napoletana, divertente e ironica, tutto sommato innocua nei suoi intenti provocatori, con una colonna sonora di Pino Daniele molto lirica, intitolata Assaje e interpretata da Lina Sastri, anch’essa molto travisata a causa della melodia inebriante che rivela, però, un testo denso di significati.Alla scena assiste anche la moglie Luciella (Sastri) con i figli, che disperatamente non riesce a raggiungere Pasquale Picone mentre lo caricano in ambulanza.

Tutti i tentativi di rintracciarlo presso gli ospedali cittadini risultano vani, e ad aiutarla nella sua ricerca interviene un disoccupato che vive di espedienti, Salvatore Cannavacciuolo (Giannini), che Lucia scopre essere uno dei debitori del marito. Il ritrovamento di un’agenda di Picone, con segnati nomi e cifre, permette a Salvatore di iniziare a ripercorrerne le tracce, finendo per addentrarsi in un sottobosco fatto di malavitosi di ogni risma e scoprendo, infine, che lo stesso Picone era una figura di spicco in quegli ambienti, a totale insaputa della moglie. Senza rivelare il finale, che riapre la trama in maniera sorprendente, si deve subito notare che, se alle prime può apparire un giallo dalle tinte rosa capace anche di strappare sorrisi, e frettolosamente verrebbe voglia di accostarlo ai film di De Crescenzo sulle vicende di Bellavista, con cui condivide al massimo la contestualizzazione con la napoletanità dell’epoca, il film rivela molto di più. Quello che rende unico questo film, la formula narrativa felicissima concepita dal regista, è appunto una denuncia sempre presente nella storia, resa con un ritmo incalzante ma con il contrappunto dell’inevitabile umorismo delle battute e delle situazioni.

Tutto si realizza evitando, tuttavia, la tentazione superficiale del macchiettismo fine a se stesso, ovvero l’esatto contrario della polemica educata ma implacabile, che è il maggior pregio del film. In sintesi, lo spettatore può godere appieno della cifra inconfondibile dello stile di Nanni Loy che con questa pellicola ha dimostrato di essere più napoletano dei napoletani, esattamente come il Sorrentino de La grande bellezza ha dimostrato di essere più romano dei romani. In Mi manda Picone si è proiettati in una dimensione a tratti metafisica, resa anche dalle ambientazioni notturne, dove gli antichissimi palazzi del centro storico di Napoli appaiono come luoghi dei misteri inconfessati, con volti scavati e asimmetrici dalle cui bocche escono sentenze implacabili. Lo stesso Cannavacciulo, il vero protagonista della vicenda è un simbolo raffinato della precarietà: spettinato, incravattato e impolverato, Giannini cammina sempre combattendo con la difficoltà delle calzature, immancabilmente con una busta di plastica, con dentro una confezione di pastina, da consumarsi allorquando la comodità lo possa consentire.

Gli altri personaggi sembrano satelliti attorno a questo eroe dell’equilibrismo quotidiano, ma ognuno è un universo, una storia che potrebbe durare all’infinito, una giustizia da gridare, un dolore da confessare. Se il regista avesse indugiato in alcuni aspetti avrebbe potuto davvero tracciare un film dai forti risvolti etnografici. Ne esce comunque un quadro netto che colpisce lo spettatore attento a non farsi distrarre dalla comicità involontaria. Mi manda Picone è un affresco della deriva morale, sociale e culturale italiana e meridionale tracciato ricollegandosi almeno idealmente alla denuncia pasoliniana del definitivo snaturamento dei costumi nazionali. I ricatti non sono solo quelli materiali, sono soprattutto quelli morali, come la strisciante tentazione di assicurare alla propria famiglia livelli di benessere che con il semplice lavoro onesto non si possono assicurare: cosa si può fare? Si può lavorare per la camorra nel “dopo-lavoro”, all’insaputa dei propri familiari, salvando le apparenze e creandosi una doppia vita. È quello che fa l’introvabile Picone, prototipo perfetto del proletariato meridionale che si riscatta attraverso mille espedienti illegali per atteggiarsi a piccola borghesia consumatrice, senza sfigurare con i compagni “di classe” delle più fortunate regioni settentrionali. Nanni Loy, regista e autore del film, compie questa analisi non dieci anni dopo l’emergere del fenomeno, ma proprio quando esso inizia a spuntare e a diffondersi, in piena epoca di rampantismo craxiano, sotto il naso di tutti noi, spettatori attivi e non di un quotidiano sempre più filtrato dall’immaterialità dei media. Siamo negli anni in cui si diffondono le doppie auto per famiglia, le doppie case, le doppie vacanze.

La sensazione è quella appunto di un raddoppio continuo, di un consumo illimitato, in un contesto dove è assolutamente inimmaginabile che un giorno le pensioni di anzianità non possano essere più erogate dallo Stato. Dove forse la stessa idea della morte non appartiene più agli uomini.Ecco, questo film squarcia il velo patinato di quella menzogna, ancora straordinariamente desta, del crescente benessere diffuso, agognato da strati sempre più ampi di popolazione meridionale prima, ed immigrata poi, che non vuole mancare al grande banchetto del godimento.Lo fa con un’estetica garbatamente rabbiosa che si potrebbe definire come “metafisica del paradosso”, ovvero l’anima autentica della napoletanità, che non è semplicemente “comicità”, bensì “umorismo”. A Napoli il riso è sempre frutto di una riflessione, motivo per cui il dolore si mischia alla gioia, il volto si confonde con la maschera e in Mi manda Picone questo lo si assaggia quasi ad ogni fotogramma, anche in quelli dove è possibile rintracciare embrionalmente la denuncia dei bambini-soldato della camorra (la sequenza del film a Marechiaro), su cui trent’anni dopo si sofferma Roberto Saviano. Perciò questo umorismo che attraversa il film è intervallato a tratti da brevi silenzi malinconici, introspettivi, ai limiti dell’incomunicabilità, senza la risata gratuita, cercata con forzato effetto.Con questa storia Loy getta un faro di luce sull’altro lato delle lusinghe dei modelli dell’agiatezza di massa, che proprio negli anni ’80 hanno fatto man bassa di coscienze, corpi e menti, imponendo linguaggi asettici, espressioni culturali ad hoc, dal sapore mortifero del nylon da confezione regalo, da panettone industriale dal gusto anonimo e pertanto molto amato da tutti o del whisky che ci fa tutti Michele.Val tuttavia la pena notare che la Napoli descritta nel film di Loy era quella – la immortalano impietosamente alcune sequenze – in cui il Comune autorizzava il parcheggio dei pullman a piazza del Plebiscito. Da qualche anno quei pullman non ci sono più. E forse non solo a Napoli. Val la pena sperarlo.

Le immagini sono state ricavate dalle fonti seguenti:

https://photo.ivid.it/foto-371562/film/mi-manda-picone/lina-sastri-giancarlo-giannini.html

http://notoriousmartagabrieli.blogspot.it/2014/10/mi-manda-picone-di-nanni-loy-spaccato.html

https://www.comingsoon.it/personaggi/lina-sastri/83351/biografia/

http://napoli.repubblica.it/cronaca/2010/03/21/foto/piazza_del_plebiscito_15_anni_di_arte-2803774/5/

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