La sostenibile pesantezza dell’indecisione: lo sguardo di Perrone sugli adolescenti non cresciuti

Insomma, l’editore Giulio Perrone ci prova gusto a scambiarsi di ruolo con gli scrittori che lui stesso deve provvedere a pubblicare. Con L’amore finché resta egli inanella il suo terzo libro da autore, dopo i romanzi L’esatto contrario(2015) e Consigli pratici per uccidere mia suocera(2017), usciti per i tipi della Rizzoli, inoltrandosi nello spaccato di vita romana dei primissimi anni 2000, quando il Re leone Batistuta dispensava fiammate di gioia alla tifoseria romanista e pezzi di bravura calcistica agli sportivi di ogni tifoseria, in un’Italia già conscia della fine della patina dorata degli anni ottanta e novanta, nella percezione abbastanza chiara dei tempi duri che l’avrebbero attesa già prima della crisi conclamata del 2008. Così, con una scrittura solo all’apparenza disinvolta e impregnata di giovanilismo-in realtà concepita   sapientemente come una   fotografia spiccicata   della comunicazione fra umani già collocati nel terzo millennio- si racconta la storia di Tommaso, psicoterapeuta fallito e infelicemente sposato con la ben più ricca e altolocata Lucrezia, che sancisce la loro rottura matrimoniale gettando il consorte nella più classica delle tane di rifugio emergenziale: la casa popolare della madre. La vicenda, poi s’inoltra negli anfratti dei tentativi di quest’ultimo di risalire la china, sfoderando dall’ armadio delle soluzioni, le cosiddette potenzialità inespresse, quei motori ausiliari che gli stessi colleghi di Tommaso tentano di attivare nei loro pazienti durante le loro sedute. Proprio in relazione a questo aspetto, Giulio Perrone autore di libri, si diverte a riprendere se stesso in uno dei personaggi della storia-nel senso del ruolo che svolge in società, ovvero l’editore- alle prese con le velleità di sfondamento da parte dello stesso Tommaso, che poi alla fine la soluzione clamorosa e creativa ai suoi problemi riuscirà anche a trovarla e paradossalmente a lasciarla cadere all’ultimo momento, fra lo stupore di tutti, anche e forse di se stesso, capace di un inopinato gesto di ribellione che lo riconduce alla quotidianità. Al primo sguardo, ci sono tutti gli ingredienti per realizzare che L’amore finché resta sia un romanzo sull’adultescenza, su quel fenomeno che lo psicanalista Massimo Ammanniti ha messo a fuoco in saggio intitolato Adolescenti senza tempo, dove si pone l’accento sul prolungamento dell’età dei turbamenti, delle eterne indecisioni, dei sogni da realizzare uniti all’ angoscia di non poterli raggiungere, per cui sotto questo profilo, si potrebbe azzardare che le pagine di Perrone paiano auspicare un avvicendamento letterariamente pionieristrico di una delle figure più classiche della letteratura europea e italiana, ovvero quella dell’ “inetto” con appunto quella dell’ “adultescente”. Infatti, un indizio di rilievo sulla riuscita di questa operazione intellettuale è la veste stilistica adottata dall’ autore: un periodare secco e stringato, ai limiti del gergale, tuttavia fortemente allusivo agli stati d’animo, ad una psicologia solo apparentemente labile, bensì indicativa della spesso sofferta inconfessabilità dell’amarezza, della frammentarietà involontaria dei pensieri. In tutto ciò, con l’arguzia dell’osservatore di costume, Perrone mette su carta i contenuti lapidari degli sms, gettando il lettore nel flusso di pensieri fra contemporanei così come si produce nella realtà-in presa diretta spesso con lo sforzo di questi messaggi digitali di esprimerne l’emotività, come poi successivamente gli “emoticon” provvederanno a fare nel corso del progresso tecnologico.  Così, in un quotidiano dove ci si appassiona alla propria squadra di calcio (la Roma) a tal punto da incaricarla non solo di alleviare le amarezze personali, ma addirittura di farla assurgere a simbolo di una contrapposizione sociale in termini di riscatto-Tommaso è romanista sfegatato, mentre la famiglia della ricca moglie Lucrezia è di fede juventina- il personaggio di Tommaso si avventura nella giungla del sovvertimento del quotidiano, del colpo di fortuna, del ribaltamento del tavolo, scontrandosi con addetti ai lavori dell’editoria che svelano alcune piccole ma assolute verità sui meccanismi promozionali dei libri e dei social network, giungendo finalmente ad avere la sua occasione. Eppure, proprio nelle pagine finali della storia accade ciò che non ti aspetti, la percezione abbastanza chiara che forse la rinuncia di Tommaso non è poi così immatura e “adultescente”, perché allude ad una presa di coscienza davvero superiore, che per rispetto al libro è bene lasciar scoprire alla curiosità del lettore. In tutto ciò cosa c’entra l’amore? Insomma, che cosa ne è del titolo di questo libro dall’editing sociologicamente scaltrito? Esso compare nelle massime del protagonista lungo il racconto, quasi a punteggiare la vita che ci corre davanti, convinzioni consolidate cui Tommaso si aggrappa quasi per fronteggiare le avversità che ci sovrastano, piccoli mantra messi in forma di decaloghi, destinati a dissolversi alla fine, a infrangersi contro quella straordinarietà ordinaria che è l’amore vissuto davvero e che forse nessuna formula psicoanalitica sarebbe capace di contenere.

Accecante come la vita: il bianco secondo Innocenti

Se questo romanzo biografico dovesse possedere una forma geometrica, questa sarebbe una spirale elicoidale. In meno di centocinquanta pagine sprigiona una scrittura che ridisegna una delle tecniche narrative più ardue, ovvero il “monologo interiore”. La storia è quella che parte da un paesetto rurale, dove la morbosa curiosità di un giovane-Michele Maestri-lo spinge a scoprire la vita privata della colf del notaio di quella piccola comunità, molto impegnata a ricevere uomini nel corso del pomeriggio. I guai iniziano proprio con la scoperta da parte della domestica della presenza dello spione di turno, che subisce la reazione violenta della donna, dalle conseguenze inopinabili: la segregazione momentanea in un armadio, dove il candore del colore bianco si tramuta-a partire dal quel momento- per il giovane e malcapitato Maestri nel colore della vergognosa inconfessabilità. Ha così inizio la storia di quest’uomo di provincia, raccontata parallelamente alle sue stazioni esistenziali, scandite anagraficamente come la perentorietà dei ciak registici di uno di quei film allergici al lieto fine.  Con Vani d’ombra del giornalista fiorentino Simone Innocenti, in forza al “Corriere Fiorentino” e scrupoloso cronista di spinose vicende di carattere nazionale, siamo di fronte ad una creatura letteraria capace di fare a meno del virgolettato del dialogo classico, rendendo qualsiasi forma di scambio verbale fra i comprimari, con un effetto per il lettore atipico e affascinante insieme. Una narrazione coincidente con il punto di vista del protagonista, lungo la quale si srotolano lacerate intimità. Un romanzo biografico votato ad accreditare il minimalismo in letteratura, se si vuole, addirittura a tentare di rinverdirlo, poiché tutto concentrato su elementi molto a portata di mano: colori, vista, stati d’animo. Un romanzo apertamente aderente alla realtà di tutti i giorni, tuttavia capace di trasfigurarla, di rigirarla come un guanto, facendone intravedere le implicazioni più inconfessabili, come il suo stesso titolo suggerisce, un’allusione all’ombra delle cose, che rivela implicitamente l’esistenza di una luce da cui prende origine, nel gioco instancabile dei rimandi chiaroscurali della vita. Innanzitutto, il bianco appare con la fisionomia di un’esperienza percettiva che va ben al di là del mero dato di realtà. Il “bianco” è, a seconda delle situazioni del protagonista,   un vissuto di vergogna o un afflato di liberazione. Sotto questo profilo, l’opera di Innocenti ha i connotati di una vera e propria “fenomenologia del colore”, un dipanarsi di stati d’animo sulla scia della percezione visiva. Più in profondità, si può ipotizzare che il libro giochi con la metafora della visione quale inevitabile destino prismatico, qualora si decidesse di catturare in via definitiva qualsiasi verità. Chi vede? Che cosa si vede? Chi possiede il punto di vista giusto? Vani d’ombra sembra evocare, dunque, a tratti, le atmosfere paradossali create nei confronti del lettore del Sartre de La Nausea, oppure le situazioni tormentate di un film come Fotografando Patrizia(1984) di Salvatore   Samperi. Anche la scelta di Innocenti di raccontare il mestiere dell’ottico nelle sue vesti puramente artigianali, rivela una visione un po’ vintage di questa professione, già da tempo stravolta dai meccanismi asetticamente commerciali e preconfezionati, tuttavia certamente efficace all’ interno dell’economia del racconto. Quello che potrebbe sembrare un atto di “miopia” intellettuale, è in realtà un espediente per tracciare il percorso catartico del protagonista chiamato a redimersi appunto dal “bianco”. Libro scevro dall’ insopportabile strombazzamento del dolore, piuttosto sempre in equilibrio fra ironia, autoironia, denuncia sommessa del degrado umano mista a disincanto compiaciuto, si proietta nell’ azzardo dello sdoppiamento delle identità, reso con l’adozione dell’uso scambievole della prima e della terza persona singolare-nel caso del protagonista che racconta delle cose e anche di se stesso, ma anche con l’adozione di un doppio nome(quello di Linda-Arianna) per identificare la compagna di Michele Maestri. Un tratto stilistico peculiare che aderisce perfettamente al nocciolo profondo di questo romanzo, ovvero un’  immersione impavida nel vortice del travaglio di un’esistenza ineluttabilmente costretta a gettare uno sguardo sulle cose e sul mondo, con un inevitabile scommessa dell’identità personale. Un finale meditativo, gustoso nel suo sardonico scetticismo verso il saccente piattume diagnostico della psicopatologica e con le sue pretese di scandagliare   gli abissi dell’animo umano, con una ficcante riflessione sulla bianchezza quale dimensione cromatica che somma in se stessa tutti gli altri esistenti, producendo così una metafora accecante dell’inesprimibile complessità della vita, costituisce il naturale approdo di queste calibratissime pagine.