L’entusiastico turbine della vita: Vestali di Valeria Serofilli

Nello scorrere le pagine di Vestali, raccolta poetica pubblicata nel 2015 da Ibiskos Ulivieri editrice,  di Valeria Serofilli, autrice parmense ma di formazione toscana, docente, saggista e scrittrice dai trascorsi di rilevo in campo nazionale e internazionale, la cui opera letteraria ha attirato l’attenzione critica di critici quali Dino Carlesi, Aldo Onorati e Giorgio Bárberi Squarotti, si assiste increduli al rinnovarsi sorprendente  del dionisismo poetico in un contesto epocale dove l’amore e i sentimenti hanno conosciuto. già da un pezzo, lo svilimento del disincanto irreversibile.

Con una cifra stilistica   che spicca per la vividezza di alcuni accostamenti volti ad aprire nuovi campi semantici(“abbracci peplo” in Sirtaki), eleganti posposizioni nella relazione aggettivi-sostantivi, personali ed encomiabili combinazioni di esperienze sensoriali di tipo olfattivo e tattile, Valeria Serofilli pare emulare più o meno inconsapevolmente  un maestro della seduzione lirica quale Kostantinos Kavafis, rinnovandone l’intonazione fondamentale e tracciando atmosfere dove il mondo greco-con tutta la sua sterminata collezione di eroi mitologici, luoghi leggendari e potenze ammaliatrici- diventa uno specchio dove riflettere il proprio mondo interiore, la quotidianità dei rapporti, l’inconfessabilità e l’intimità del proprio immaginario. Un approccio credibile e proficuo di come la monumentalità dei classici della terra del mito(la Grecia) possa davvero rivivere e risuonare dentro il lettore, senza la tentazione dell’attualizzazione posticcia e forzata, che come tale apparirebbe solo come esercizio di stile ed esibizione gratuita.

L’autrice, al contrario, rivela una non comune capacità di incameramento di quel mondo immortale declinandolo con elegante disinvoltura negli squarci di vita suoi, in cui ognuno può riconoscersi. Una nota particolare-al giudizio di chi scrive questa recensione-merita il componimento intitolato “Quando incontrerò i tuoi occhi” che appare come un interessante ribaltamento di quello celeberrimo di Pavese “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”: mentre nei versi di Pavese, infatti, l’intimità dell’incontro è segnata da una sinistra eleganza, dal lugubre incombere del momento fatale, nel caso di Valeria Serofilli  si celebra un sommesso trionfo della vita, reso con un pullulare di vibranti immagini metaforiche( “iconstasi di territori”) cui si sommano assonanze particolari di sostantivi semanticamente distanti( “estati d’estasi”). Un piccolo saggio di come l’autrice sappia spaziare con sottile ironia anche nei territori della grande poesia italiana del novecento, per la quale avverte anche l’esigenza di rendere esplicito omaggio ad Alda Merini.

La sostenibile pesantezza dell’indecisione: lo sguardo di Perrone sugli adolescenti non cresciuti

Insomma, l’editore Giulio Perrone ci prova gusto a scambiarsi di ruolo con gli scrittori che lui stesso deve provvedere a pubblicare. Con L’amore finché resta egli inanella il suo terzo libro da autore, dopo i romanzi L’esatto contrario(2015) e Consigli pratici per uccidere mia suocera(2017), usciti per i tipi della Rizzoli, inoltrandosi nello spaccato di vita romana dei primissimi anni 2000, quando il Re leone Batistuta dispensava fiammate di gioia alla tifoseria romanista e pezzi di bravura calcistica agli sportivi di ogni tifoseria, in un’Italia già conscia della fine della patina dorata degli anni ottanta e novanta, nella percezione abbastanza chiara dei tempi duri che l’avrebbero attesa già prima della crisi conclamata del 2008. Così, con una scrittura solo all’apparenza disinvolta e impregnata di giovanilismo-in realtà concepita   sapientemente come una   fotografia spiccicata   della comunicazione fra umani già collocati nel terzo millennio- si racconta la storia di Tommaso, psicoterapeuta fallito e infelicemente sposato con la ben più ricca e altolocata Lucrezia, che sancisce la loro rottura matrimoniale gettando il consorte nella più classica delle tane di rifugio emergenziale: la casa popolare della madre. La vicenda, poi s’inoltra negli anfratti dei tentativi di quest’ultimo di risalire la china, sfoderando dall’ armadio delle soluzioni, le cosiddette potenzialità inespresse, quei motori ausiliari che gli stessi colleghi di Tommaso tentano di attivare nei loro pazienti durante le loro sedute. Proprio in relazione a questo aspetto, Giulio Perrone autore di libri, si diverte a riprendere se stesso in uno dei personaggi della storia-nel senso del ruolo che svolge in società, ovvero l’editore- alle prese con le velleità di sfondamento da parte dello stesso Tommaso, che poi alla fine la soluzione clamorosa e creativa ai suoi problemi riuscirà anche a trovarla e paradossalmente a lasciarla cadere all’ultimo momento, fra lo stupore di tutti, anche e forse di se stesso, capace di un inopinato gesto di ribellione che lo riconduce alla quotidianità. Al primo sguardo, ci sono tutti gli ingredienti per realizzare che L’amore finché resta sia un romanzo sull’adultescenza, su quel fenomeno che lo psicanalista Massimo Ammanniti ha messo a fuoco in saggio intitolato Adolescenti senza tempo, dove si pone l’accento sul prolungamento dell’età dei turbamenti, delle eterne indecisioni, dei sogni da realizzare uniti all’ angoscia di non poterli raggiungere, per cui sotto questo profilo, si potrebbe azzardare che le pagine di Perrone paiano auspicare un avvicendamento letterariamente pionieristrico di una delle figure più classiche della letteratura europea e italiana, ovvero quella dell’ “inetto” con appunto quella dell’ “adultescente”. Infatti, un indizio di rilievo sulla riuscita di questa operazione intellettuale è la veste stilistica adottata dall’ autore: un periodare secco e stringato, ai limiti del gergale, tuttavia fortemente allusivo agli stati d’animo, ad una psicologia solo apparentemente labile, bensì indicativa della spesso sofferta inconfessabilità dell’amarezza, della frammentarietà involontaria dei pensieri. In tutto ciò, con l’arguzia dell’osservatore di costume, Perrone mette su carta i contenuti lapidari degli sms, gettando il lettore nel flusso di pensieri fra contemporanei così come si produce nella realtà-in presa diretta spesso con lo sforzo di questi messaggi digitali di esprimerne l’emotività, come poi successivamente gli “emoticon” provvederanno a fare nel corso del progresso tecnologico.  Così, in un quotidiano dove ci si appassiona alla propria squadra di calcio (la Roma) a tal punto da incaricarla non solo di alleviare le amarezze personali, ma addirittura di farla assurgere a simbolo di una contrapposizione sociale in termini di riscatto-Tommaso è romanista sfegatato, mentre la famiglia della ricca moglie Lucrezia è di fede juventina- il personaggio di Tommaso si avventura nella giungla del sovvertimento del quotidiano, del colpo di fortuna, del ribaltamento del tavolo, scontrandosi con addetti ai lavori dell’editoria che svelano alcune piccole ma assolute verità sui meccanismi promozionali dei libri e dei social network, giungendo finalmente ad avere la sua occasione. Eppure, proprio nelle pagine finali della storia accade ciò che non ti aspetti, la percezione abbastanza chiara che forse la rinuncia di Tommaso non è poi così immatura e “adultescente”, perché allude ad una presa di coscienza davvero superiore, che per rispetto al libro è bene lasciar scoprire alla curiosità del lettore. In tutto ciò cosa c’entra l’amore? Insomma, che cosa ne è del titolo di questo libro dall’editing sociologicamente scaltrito? Esso compare nelle massime del protagonista lungo il racconto, quasi a punteggiare la vita che ci corre davanti, convinzioni consolidate cui Tommaso si aggrappa quasi per fronteggiare le avversità che ci sovrastano, piccoli mantra messi in forma di decaloghi, destinati a dissolversi alla fine, a infrangersi contro quella straordinarietà ordinaria che è l’amore vissuto davvero e che forse nessuna formula psicoanalitica sarebbe capace di contenere.

Accecante come la vita: il bianco secondo Innocenti

Se questo romanzo biografico dovesse possedere una forma geometrica, questa sarebbe una spirale elicoidale. In meno di centocinquanta pagine sprigiona una scrittura che ridisegna una delle tecniche narrative più ardue, ovvero il “monologo interiore”. La storia è quella che parte da un paesetto rurale, dove la morbosa curiosità di un giovane-Michele Maestri-lo spinge a scoprire la vita privata della colf del notaio di quella piccola comunità, molto impegnata a ricevere uomini nel corso del pomeriggio. I guai iniziano proprio con la scoperta da parte della domestica della presenza dello spione di turno, che subisce la reazione violenta della donna, dalle conseguenze inopinabili: la segregazione momentanea in un armadio, dove il candore del colore bianco si tramuta-a partire dal quel momento- per il giovane e malcapitato Maestri nel colore della vergognosa inconfessabilità. Ha così inizio la storia di quest’uomo di provincia, raccontata parallelamente alle sue stazioni esistenziali, scandite anagraficamente come la perentorietà dei ciak registici di uno di quei film allergici al lieto fine.  Con Vani d’ombra del giornalista fiorentino Simone Innocenti, in forza al “Corriere Fiorentino” e scrupoloso cronista di spinose vicende di carattere nazionale, siamo di fronte ad una creatura letteraria capace di fare a meno del virgolettato del dialogo classico, rendendo qualsiasi forma di scambio verbale fra i comprimari, con un effetto per il lettore atipico e affascinante insieme. Una narrazione coincidente con il punto di vista del protagonista, lungo la quale si srotolano lacerate intimità. Un romanzo biografico votato ad accreditare il minimalismo in letteratura, se si vuole, addirittura a tentare di rinverdirlo, poiché tutto concentrato su elementi molto a portata di mano: colori, vista, stati d’animo. Un romanzo apertamente aderente alla realtà di tutti i giorni, tuttavia capace di trasfigurarla, di rigirarla come un guanto, facendone intravedere le implicazioni più inconfessabili, come il suo stesso titolo suggerisce, un’allusione all’ombra delle cose, che rivela implicitamente l’esistenza di una luce da cui prende origine, nel gioco instancabile dei rimandi chiaroscurali della vita. Innanzitutto, il bianco appare con la fisionomia di un’esperienza percettiva che va ben al di là del mero dato di realtà. Il “bianco” è, a seconda delle situazioni del protagonista,   un vissuto di vergogna o un afflato di liberazione. Sotto questo profilo, l’opera di Innocenti ha i connotati di una vera e propria “fenomenologia del colore”, un dipanarsi di stati d’animo sulla scia della percezione visiva. Più in profondità, si può ipotizzare che il libro giochi con la metafora della visione quale inevitabile destino prismatico, qualora si decidesse di catturare in via definitiva qualsiasi verità. Chi vede? Che cosa si vede? Chi possiede il punto di vista giusto? Vani d’ombra sembra evocare, dunque, a tratti, le atmosfere paradossali create nei confronti del lettore del Sartre de La Nausea, oppure le situazioni tormentate di un film come Fotografando Patrizia(1984) di Salvatore   Samperi. Anche la scelta di Innocenti di raccontare il mestiere dell’ottico nelle sue vesti puramente artigianali, rivela una visione un po’ vintage di questa professione, già da tempo stravolta dai meccanismi asetticamente commerciali e preconfezionati, tuttavia certamente efficace all’ interno dell’economia del racconto. Quello che potrebbe sembrare un atto di “miopia” intellettuale, è in realtà un espediente per tracciare il percorso catartico del protagonista chiamato a redimersi appunto dal “bianco”. Libro scevro dall’ insopportabile strombazzamento del dolore, piuttosto sempre in equilibrio fra ironia, autoironia, denuncia sommessa del degrado umano mista a disincanto compiaciuto, si proietta nell’ azzardo dello sdoppiamento delle identità, reso con l’adozione dell’uso scambievole della prima e della terza persona singolare-nel caso del protagonista che racconta delle cose e anche di se stesso, ma anche con l’adozione di un doppio nome(quello di Linda-Arianna) per identificare la compagna di Michele Maestri. Un tratto stilistico peculiare che aderisce perfettamente al nocciolo profondo di questo romanzo, ovvero un’  immersione impavida nel vortice del travaglio di un’esistenza ineluttabilmente costretta a gettare uno sguardo sulle cose e sul mondo, con un inevitabile scommessa dell’identità personale. Un finale meditativo, gustoso nel suo sardonico scetticismo verso il saccente piattume diagnostico della psicopatologica e con le sue pretese di scandagliare   gli abissi dell’animo umano, con una ficcante riflessione sulla bianchezza quale dimensione cromatica che somma in se stessa tutti gli altri esistenti, producendo così una metafora accecante dell’inesprimibile complessità della vita, costituisce il naturale approdo di queste calibratissime pagine.

Seguire l’odore per trovare l’anima: I libri secondo Vincenzo Caccamo

                              “Una città senza libreria è un luogo senza cuore.”

                                                                            (Gabrielle Zevin)

È pacifico che la chiave di accesso ai libri sia la lettura, tuttavia ciò potrebbe non bastare per renderli una parte di noi. Per evocarli in maniera potente, ci viene dunque in soccorso l’olfatto, capace di restituircene la parte più recondita, fosse solo anche per quella sensazione pungente del misto di inchiostro e pasta cartacea di cui quella pagine rilegare sono portatrici alle nostre narici. Insomma, per sostenere l’idea che esiste il rapporto erotico fra noi e i libri, si potrebbe snocciolare la teoria dei feromoni, secondo la quale fra gli animali la scelta del partner avverrebbe attraverso appunto l’odorato, con il risultato finale di rendere più accettabile alla nostra ragione quella che potrebbe sembrare una vezzoso parossismo.

Rimane il fatto che L’odore dei libri edito da Culture in due edizioni (la prima nel 2008, la seconda nel 2011) del librario di Reggio Calabria Vincenzo Caccamo è un cimento letterario che ruota appunto attorno a questo particolare rapporto fra uomo e libro, con implicazioni suggestive che spaziano dalla pura estetica letteraria, fino alla meditazione sull’emancipazione personale, passando per ineludibili percorsi filosofici. Siamo di fronte ad un libro singolare per contenuti, trama, modalità di scrittura, genere letterario di appartenenza, vicissitudini editoriali, queste ultime poi rese note ai lettori grazie alla pubblicazione delle motivazioni della mancata pubblicazione da parte del gruppo RCS e di Einaudi, ragioni di rifiuto che-a giudizio di chi scrive-finiscono per avvalorare il messaggio definitivo della storia narrata da Caccamo.

Nuccio Ordine

Per la serie: se i perché del rifiuto sono stati quelli addotti dalle suddette società editoriali, non li si deve interpretare come note di demerito, al contrario come una sorta di encomi indiretti a quanto coraggiosamente proposto all’ attenzione degli editor. Per ovvie ragioni di salvaguardia della curiosità dei potenziali lettori è opportuno tratteggiare nel modo più cursorio possibile la trama di questa vicenda romanzesca a metà fra la pièce teatrale, la letteratura di formazione e quella surreale con una punta di giallo, per poi dipanarne i risvolti più   esistenziali. La scoperta del libraio Elio (“Sole” nella lingua greca antica), un giorno qualsiasi, attraverso un sogno premonitore con protagonista un folletto, di avere un’anima oltre che un corpo, provoca tutta una serie di eventi che pregiudicano il rapporto con la sua clientela,inducendolo anche a guardare la realtà vuota dei dibattiti autocelebrativi degli “intellettuali”, addirittura spingendolo ad un’ autoimposta scomparsa, per poi ricomparire con uno sguardo totalmente   rinnovato su di sé, sulla vita, sugli altri. Cosa rimane, dunque,giunti all’ ultima pagina di questo raffinato esperimento letterario di Caccamo? In primo luogo, va riconosciuto all’ autore di aver abilmente scansato la tentazione dell’autobiografismo gratuito, orientando la vicenda verso lidi concettuali di respiro universale, non proprio di urgenza contemporanea: i grandi libri come occasione di crescita personale e interiore, di veri e propri percorsi iniziatici, la mercificazione della cultura, che interpella non solo gli editori, ma anche i lettori chiamati a scelte più critiche e impegnative, fino al mestiere del librario, che pone l’ interrogativo se le professioni culturali debbano limitarsi solo all’ effettuazione degli scontrini. Insomma, pur nelle poche pagine che lo compongono, quello di Caccamo è un libro denso, che deborda di spunti, che sfociano in una questione capitale: interrogarsi sulle ragioni vere della letteratura per l’uomo del terzo millennio. Vale la pena ricordare come un saggio di quasi una dozzina d’anni fa, vergato guarda caso da un accademico e intellettuale calabrese che di nome fa Nuccio Ordine, intitolato L’utilità dell’inutile, abbia messo in guarda con tanto di nutrite statistiche lo stato assai preoccupante in cui versa l’editoria di qualità, della fruizione dei grandi classici della cultura greca e latina, dei capisaldi della filosofia occidentale, non solo in Italia ma anche in alcune insospettabili realtà dell’Europa occidentale.

Un’analisi, quella di Ordine, che getta una luce provvidenziale sull’ attacco che l’umanesimo continua inesorabilmente a subire nella società contemporanea in termini di tagli alla cultura, sovvenzionamenti simbolici, scarsa considerazione promozionale dell’utilità appunto di studi umanistici. Da qui, appunto, le ragioni delle finalità del saggio in questione che arditamente ribalta la tendenza attuale, rimarcando al contrario “utilità” di ciò che ormai appare “inutile”. Proprio questo spirito di lotta è raccolto dal L’odore dei libri, dove il librario Elio arriva a litigare con i propri clienti per “convertirli” all’ ascolto della loro voce interiore, sacrificando così l’interesse economico personale, il tutto espresso con un brio di battute e di dialoghi incalzanti, davvero felici nell’ esito narrativo se si pensa anche solo alla difficoltà di affrontare un tema come quello proposto: l’amore sconfinato per i grandi libri e il loro potere salvifico.Uno stile diretto, quello di Caccamo, calibrato e incisivo nella sua stringatezza, con la sardonica trovata di arricchire le pagine stampate con le vignette disegnate dalla figlia Alice (dei quadretti innocenti e impietosi insieme come solo l’innocenza di un bambino è capace di produrre), una scelta che sa di una sorta di simbolico passaggio di testimone fra generazioni, un atto concreto di insegnamento dell’amore per la cultura e per l’umanità. Più di qualche critico ha evidenziato la ripresa personale che   Caccamo compie in questo libro circa di un tòpos classico della letteratura mondiale, ovvero quello della “biblioteca universale”, rinvenibile in Herman Hesse, ma anche nel “divino” Borges. Una giusta considerazione, che deve essere seguita dalla precisazione circa l’uso che se ne fa, poiché l’autore non scade nell’ erudizione fine a se stessa, ma intraprende un sottile gioco meta-letterario( nel libro compare un Riccardo Meis che rievoca il Meis del Pirandello di Uno, nessuno e centomila), con una  reinterpretazione personale del suddetto tòpos, curvandolo verso la ricerca intima  del senso delle cose, del mondo, di noi stessi, attraverso quelle scatole magiche che sono, appunto, i libri.  Nelle battute precedenti di questa recensione si è accennato ai rifiuti di noti gruppi editoriali, contenuti nelle pagine conclusive dell’edizione del libro del 2008, una chicca a nostro avviso, perché solitamente gli autori non amano rendere pubbliche le bocciature subite dalle loro inappuntabili creature. Eppure, vale la pena soffermarsi su questo aspetto, perché ad esempio l’editore Einaudi ha motivato il suo diniego giudicando l’opera di Caccamo più vicina al pezzo teatrale che alla forma-romanzo-racconto lungo, pur riconoscendo il valore dell’idea di rendere protagonisti i libri attraverso i contenuti fondamentali degli stessi, dimostrando così di non aprirsi alla possibilità di sperimentazioni letterarie affascinanti, volte a rinnovare i generi letterari tradizionali. Più significativa appare,poi,la motivazione accampata dal gruppo R.C.S, che esalta le pagine di Caccamo per originalità e robustezza narrativa, rimproverandole però l’eccessivo “gioco intellettuale” che la innerverebbe, una cosa poco consona-secondo il suddetto gruppo editoriale-alle esigenze del pubblico “generalista”. Una presa di posizione sufficiente per dimostrare proprio una delle tesi fondamentali del libro, ovvero che il pubblico non sembra più essere educato a libri di un certo spessore, con una chiara responsabilità proprio degli editori. Un’esplicita confessione di colpa, aggiunge chi scrive queste righe. Ma, al di là di tutte le valutazioni critiche che si possono svolgere nei perimetri della critica, di questo libro ci preme ricordare le “occasioni”, le circostanze verificabili da chiunque, che lo hanno di fatto partorito.  Innanzitutto il suo autore, Vincenzo Caccamo, che nella vita fa realmente il librario a Reggio Calabria, città di confine continentale che si affaccia sul mare dello stretto di Messina e che, come tante, vive un   destino simile a quello delle belle donne sfregiate dallo squarcio di un taglio da arma bianca o da sversamento di acido: una realtà affascinante ma che non riesce ad esprimersi al massimo delle sue possibilità, condannata ancora a fare i conti con problemi inveterati.

In questa città Vincenzo dirige una biblioteca-museo, sita in una via che costeggia il corso principale della città. Proprio chi passeggia da quelle parti può imbattersi stupefatto negli arabeschi di Villa Zerbi, una specie di miracolo architettonico fra tanto cemento anonimo. Di fronte a quell’ oasi fiabesca c’è la sua libreria, in via Zaleuco, un albergo incantato dove statue e sculture provenienti dalle più disparate parti del mondo fanno da enigmatici guardiani agli scaffali dei libri, gemme cartacee all’aria, oro spirituale tirato fuori da scrigni pirateschi. Un luogo tanto sorprendente quanto paradossale, poiché metaforizza il silenzio intorpidito che sembra avvolgere le nostre città, il nostro paese, forse buona parte del mondo, ergendosi come un bastione senza tempo contro il chiasso delle moltitudini, un ennesimo esempio di come a sud spesso la testimonianza esistenziale dei singoli possa riscattare moralmente il destino infame di intere comunità, un implicito omaggio alla speranza che i fiori nascano anche (e soprattutto) nel deserto. Ecco, facendo una passeggiata lì, magari entrando in quel luogo fatato, si potrebbe avvertire non solo l’odore dei libri, ma anche il sussulto della nostra anima.

La libreria Culture a Reggio Calabria

La robustezza mite di una speranza: letteratura e arte secondo Xingjian

Gao Xingjian è un uomo di quasi ottant’anni e si presenta con la sobrietà di quei cinesi che non si scompongono di fronte al vento dispettoso che scompiglia i capelli. Lo sguardo trasmette la calma delle acque dei laghi dell’estremo oriente, contornato di rughe elegantissime, ad abbellire i solchi delle orbite, perfettamente a mandorla. Nel 2000 ha conquistato il premio Nobel per la letteratura, attività nella quale ha espresso perle cartacee come La montagna dell’anima (2002). All’attività di scrittore affianca anche quella di drammaturgo e di pittore, mostrando oltre alla passione anche una capacità espressiva che giunge come un siero incantato nelle menti dei fortunati osservatori delle sue creature.  Con Per un nuovo rinascimento, edito da La Nave di Teseo(2018) questo compassato signore sferra-alla stregua di uno scaltrito maestro di Kung fu- colpi pesantissimi alla mentalità consolidata e ancora dominante della letteratura e dell’arte occidentale, impensabile per molti espertoni (sedicenti o ritenuti tali) contemporanei, spesso molto più preoccupati delle comparsate mediatiche che della profusione di convinzioni realmente personali, autentiche. Nessuno ha la verità in tasca, né tanto meno si può additare con incrollabile certezza chi possa in qualche modo detenerla, motivo per cui quella di Xingjian è una posizione teorica come tante altre e come tale è legittimamente criticabile.  Tuttavia,  questo saggio stringato spicca per il tono amabilmente impertinente che ne innerva le tesi fondamentali. Nelle sue pagine albergano parole semplici, espressioni lineari, sentenze ficcanti per trasmettere concetti densi come ammassi stellari, pressanti come locomotive inarrestabili. Siamo di fronte ad una diagnosi della cultura occidentale, rea allo sguardo di Xijngian di aver “tarpato le ali” alla letteratura e all’ arte in generale con l’imposizione di dosi eccessive di “ideologismo” e di “politicismo”. Proprio alla dittatura del “politicamente corretto” lo scrittore cinese dedica gran parte  del suo libro, denunciandone apertamente le storture provocate ai danni della spontanea creazione artistica. Un inno garbato e non strombazzato all’ autonomia dell’espressione letteraria, alla libertà e alla dignità dell’artista, chiamato solo a liberare se stesso nell’ immensa distesa dischiusa dall’ intuizione individuale. Una proposta di un nuovo Rinascimento appunto, con buona pace di coloro che possono ritenere questo scrittore-pittore cinese un romantico anacronistico, un intellettuale distratto che ignorerebbe ciò che gli “intellettuali di professione” sanno da molto tempo e che continuano astutamente a nascondere, ovvero che già da un pezzo la dimensione espressiva e artistica è sottoposta agli ingranaggi stritolanti delle “macchine di significato”, saldamente nelle mani di gruppi di interesse politico-economico, da sempre  impegnati nel reclutamento di valenti alfieri da inserire nel loro libro paga. Ma, tutto ciò a Xingjian non interessa, piuttosto egli rivela attratto dall’urgenza della bellezza, dell’irripetibilità della manifestazione estetica, dal mistero e dagli interrogativi che sgorgano solo dall’individualità creatrice, convinto   della necessità di restituirgli uno spazio libero da condizionamenti snaturanti. A chi si sentisse tentato di sottovalutare queste riflessioni, forse bisognerebbe ricordare gli innumerevoli casi in cui scrittori e artisti cosiddetti “militanti”, ben inseriti in una cultura ufficiale, si sono trovati ostracizzati dagli stessi “probi viri” della loro area ideologica di appartenenza, dai “sacri custodi” dell’ortodossia, allorquando essi hanno semplicemente dato voce alla loro coscienza, superando inevitabilmente gli steccati proibiti del “politicamente corretto”. Che dire poi, delle riflessioni estetiche di Xingjian sui territori espressivi-a detta sua ancora inesplorati- di una pittura a metà strada fra figurativo e astratto? Un altro spunto notevolissimo, carico di suggestione, un dono intellettuale da parte di chi-da cinese e da buon praticante delle botteghe d’arte- celebra la grande eredità del Rinascimento nella concretezza dell’esempio della sua vita, condotta ogni giorno fra carte e pennelli, lontano dal clamore dei geniali creatori di eventi. Fonti immagini:  https://simonapolvani.wordpress.com; http://www.wuz.it; https://rebstein.wordpress.com; http://www.torbandena.com;

I maestri “senza patente” secondo Filippo La Porta

I maestri “senza patente” secondo Filippo La Porta

Disorganici, maestri involontari del novecento, edizioni di Storia e Letteratura (2018) è un libro sorprendente, perché sotto le sembianze di un innocuo tascabile magari con qualche taciuta velleitaria ricercatezza, di una semplice carrellata erudita di intellettuali europei poco noti al grande pubblico, il critico e consulente letterario Filippo La Porta in realtà scrive un libro dove riesce a far coesistere figure d’eccezione, spesso lontanissime per formazione e trascorsi  esistenziali, tratteggiati con piglio indagatore che non rinuncia alla critica personale, sempre comunque misurata e all’insegna dell’onestà intellettuale. Una sequenza di personaggi davvero variegata, per certi versi spiazzanti, il cui assortimento tuttavia serba una ratio   comune che non sfugge al lettore attento: l’essere stato maestro al di là di qualsiasi volontaria intenzione. Ciò è l’elemento che secondo l’autore affratella Giacomo Noventa a Carlo Rosselli, Aldo Capitini a Nicola Chiaromonte, Ivan Illich a Colin Ward, Isaiah Berlin, Cesare Garboli a Chistopher Lasch. La questione fondamentale cui ruotano queste pagine sapienti forse vale una vita intera, almeno di una di quelle dedicate alla ricerca di un senso: Chi è davvero il maestro? Un azzardo di risposta potrebbe tenere conto della necessità di non confondere il ruolo del maestro (spesso frutto della cooptazione di alcune cerchie di persone “accreditate” che reclutano nelle loro fila politico-istituzionali altri “maestri”) con la sua funzione (che si esplica semplicemente con un operato intellettuale che non necessariamente deve concludersi con il riconoscimento dell’ufficialità e tutta la cerimoniosità, oltre che il potere, e le glorie raccolte in vita). Una dicotomia, questa, che riproduce la distanza ad esempio fra i primi sofisti dell’antica Grecia e il loro fiero avversario Socrate: i primi impegnati sempre a ricordare alla comunità di riferimento di essere “maestri” di una sapienza che in realtà si riduceva ad un’arte oratoria spesso mistificante; il secondo assolutamente indifferente al “titolo”, impegnato a sfidare l’ingiustizia dei tribunali con il solo conforto dei propri strumenti razionali, oltre che a spiazzare i suoi malcapitati intercolutori, sempre usciti malconci dal confronto dialettico. Ma soprattutto una dicotomia nella quale i secondi ( cioè i maestri in termini di funzione) rivelano di essere davvero importante per i posteri per motivo tanto semplice quanto arduo da inverare: la coincidenza fra professione intellettuale e vita reale, la coesistenza di pensiero e azione quotidiana. In una parola: l’esempio. Proprio questa dimensione esistenziale rende le figure esaminate da La Porta espressioni importanti di testimonianze intellettuali appunto “disorganiche”, cioè non assimilate o assimilabili   al discorso omologate delle strutture di pensiero (siano esse politiche o accademiche), cui magari alcune di esse sentivano di appartenere. In questa disorganicità prende forma la qualità di un contributo culturale personale di ognuna di loro, che poi il corso del tempo ha dimostrato di rivalutare agli occhi e alla menti dei posteri. Così, con la discrezione di un gentleman della critica, La Porta fa avvertire la nostalgia per una stagione letteraria italiana e non solo nella quale era ancora possibile far tesoro dell’operato di intellettuali abili nell’essersi saputi smarcare dalle conventicole di partito o di accademia, dediti sempre alla vigile critica del presente, di cui erano sempre pronti a rintracciare i limiti oltre i quali non era conveniente andare, sempre sospinti da una passione destinata a travasarsi sempre negli altri, creandosi così un proprio spazio e un proprio pubblico, svolgendo cioè la funzione del maestro, lontani dal libro-paga di padroni( pubblici o privati) sempre pronti a dettare l’articolo o il libro di turno per il pubblico pagante e penosamente applaudente.

Fonti immagini consultate: https://www.pescarafestival.it https://www.skuola.net

http://www.unavox.it

 

 

La menzogna delle nobili origini della mafia: Enzo Ciconte svela un grande equivoco

La menzogna delle nobili origini della mafia: Enzo Ciconte svela un grande equivoco

 

Da sempre impegnato nella ricostruzione storico-antropologica dei fenomeni malavitosi del mezzogiorno d’Italia e non solo, Enzo Ciconte con La grande mattanza-storia della guerra al brigantaggio, edito da Laterza(2018) intraprende una trattazione storica che, in via definitiva, ha di mira un chiarimento necessario per quanti intendano prendere sul serio la storia risorgimentale e post-risorgimentale. Con penna agile e sempre guidata dalla chiarezza concettuale del comunicatore esperto (Ciconte è ormai da anni docente di Storia della malavita organizzata di Roma tre e di Storia delle mafie italiane a Pavia), l’autore guida il lettore dentro i meandri della tormentata storia dell’unità d’Italia, delle contraddizioni, nonché delle forzature sul piano delle soluzioni a problemi che avrebbero dovuto ricevere una risposta matura e soprattutto civile da parte del Regno d’Italia, nato all’indomani del 1861. Un saggio segnato da grande onestà intellettuale, se si pensa che oltre a denunciare la presa di posizione dei piemontesi in relazione al fenomeno del brigantaggio, ci si scrolla di dosso qualsiasi rischio di agiografia ultrameridionalista. Ciconte, infatti, denuncia la corruzione della rampante borghesia meridionale che approfittando del nuovo ordine politico post-borbonico ha di fatto tradito la causa politico-sociale del mezzogiorno, appiattendosi agli interessi della monarchia savoiarda. Un esempio su tutti è proprio il parlamentare abruzzese Pica, autore della famigerata legge militare che nel 1863 ha costituito l’unica risposta concreta e crudele al fenomeno del brigantaggio post-unitario: un neoparlamentare meridionale che risponde in quel modo ai problemi delle sue stesse zone di provenienza. Ma queste pagine storiche meritano una menzione particolare, soprattutto perché puntano ad un obiettivo fondamentale: chiarire una volta per tutte che i briganti non sono stati i “padri nobili”, gli “antenati illustri” dei mafiosi. Ciò è dimostrato dalla distribuzione geografica dei due fenomeni che, stando alle analisi dello storico calabrese, non conoscono una sovrapposizione per cui lì dove ci sono briganti non ci sono mafiosi e viceversa. D’altronde, come potevano i briganti postunitari essere coinvolti con la mafia, se avevano dichiarato guerra al nuovo regno d’Italia? La mafia, infatti, fu ufficialmente scoperta nel 1875 con l’inchiesta parlamentare di Franchetti e Sonnino, parlamentari che inquadrarono il fenomeno mafioso come qualcosa di molto addentro alle strutture istituzionali, nella pubblica amministrazione: insomma un fenomeno che interpellava già allora i ceti dirigenti. Un’opera snella ma dai toni stringenti quella di Ciconte, che tenta di diradare la coltre di pregiudizi granitici di quanti ancora oggi preferiscono optare per la criminalizzazione del mezzogiorno d’Italia, a prescindere da qualsiasi dinamica storica, sociale ed economica, al di là di qualsiasi rivisitazione   storiografica robustamente dimostrata. Un contributo storiografico che soprattutto smonta la mitologia artificiosa spesso accettata e promossa dai mafiosi stessi di vantare “origini brigantesche”, usata come abluzione laica per legittimarsi agli occhi dell’opinione pubblica, giocando con la suggestione popolare, alla Robin Hood, del “rubare ai ricchi per dare ai poveri”; ma anche tollerata da quanti sbrigativamente hanno sempre voluto fare “di tutta un’erba un fascio”. Se qualcuno, poi, intende sollevare perplessità sull’attendibilità delle fonti utilizzate da Ciconte, è sufficiente ricordare che egli si è avvalso, in aggiunta ad altri riferimenti bibliografici: dell’Archivio centrale dello Stato, dell’Archivio di Stato di Catanzaro, dell’Archivio di Stato di Torino, dell’Archivio del museo del Risorgimento di Torino, dell’Archivio storico della Camera dei deputati, dell’Archivio Ufficio storico Stato maggiore  dell’esercito conservato a Roma, nonché dell’Archivio della Biblioteca di storia moderna e contemporanea di Roma.

Fonti delle immagini: http://www.laltrapagina.it

http://www.ctrlmagazine.it    https://www.thelocal.it

Quel mistero agrodolce sempre in agguato: la nostalgia di Eugenio Borgna

Quel mistero agrodolce sempre in agguato: la nostalgia di Eugenio Borgna

La nostalgia ferita di Eugenio Borgna (2018), edito da Einaudi è un piccolo guanciale dove poggiarci nei momenti di smarrimento interiore, soprattutto quando falliscono tutti i tentativi di dare un nome preciso ai nostri vissuti ma qualcosa non quadra. Duplice è il valore di questo libro: il primo è di natura contenutistica, il secondo di natura stilistica. In relazione al primo aspetto, balza immediatamente all’attenzione l’enfasi che l’autore pone sulla nostalgia e la sua, spesso, non pienamente compresa positività per l’essere umano e il suo vissuto interiore. Da navigatissimo addetto ai lavori, Borgna conosce molto bene la pericolosità delle “spire” della nostalgia, che spesso come il più pericoloso dei pitoni, rischia di immobilizzarci al passato, pietrificando la vitalità del presente, letali, in ultima analisi, per la nostra integrità psichica.

In altre parole, allo psichiatra non sfugge-né potrebbe essere altrimenti- che una nostalgia di questo tipo ci inchioda patologicamente al passato, che poi è la dimensione temporale tipica dello stato d’animo della nostalgia. La nostalgia, infatti è sempre lo sguardo della nostra mente rivolto a ciò che non c’è più.  Tuttavia, è proprio sulla modalità del riemergere del passato che costituisce la base per un’ulteriore ( e più significativa)  riflessione sul fenomeno. Cosa possiede di buono questa inopinabile e momentanea “cattura” dell’anima da parte dei ricordi? Cosa la renderebbe addirittura una linfa per la continuazione della nostra esistenza? La risposta risiede nella distinzione fra “rimpianto” e “nostalgia”(positiva, perché vitale). Mentre il primo traccia un rapporto fra noi e il passato come irrimediabile perdita, un valore non più recuperabile in alcun modo, una sorta di oggetto a noi molto caro che perdiamo per sempre nelle stive delle navi, il secondo, al contrario, anche nel ricordarci qualcosa che non c’è più, continua a farlo vivere dentro di noi, creando una sorta di canale di alimentazione, nel quale l’esperienza passata non è smarrita ma si rinnova di senso nel ricordo. Il rimpianto-afferma Borgna- si ricorda sempre e solo piangendo, consapevoli della nostra colpevolezza, quindi responsabilità diretta, di tale perdita-nella nostalgia(vitale) si ricorda con un sorriso agrodolce, qualcosa che potrebbe ancora avere un senso per lo stesso presente. Letta in questo modo la nostalgia nutre, nel mistero della repentinità del suo manifestarsi, l’interiorità umana, facendo in modo che essa, in qualche maniera, attinga senso, valore, vita dal passato. Una meditazione, questa di Borgna che si riallaccia inevitabilmente a quelle celebri del bergsoniano Proust mentre gusta   anche solo l’odore della medelein, il dolce a cui sono state parole folgoranti ne La ricerca del tempo perduto, il tutto per evidenziare sempre che il passato è sempre dietro l’angolo della nostra anima, che pur essendo scomparso rappresenta sempre l’armadio da cui spunta l’indumento dimenticato.  Per quanto riguarda il valore stilistico del libro, valgono le considerazioni seguenti. Il saggio  si fa gustare per uno stile magnificamente limpido, un autentico distillato di erudizione, di cui solo i grandi scienziati sono capaci, maestri nell’ esercizio sublime della sentenza sferzante cui sarebbe un errore qualcosa in più. Eugenio Borgna, dunque, si sfila il camice ospedaliero e inforca la penna come lo potrebbe fare un Pietro Citati o la coppia Fruttero-Lucentini, onorando davvero l’aderenza al suo indirizzo teorico in ambito psichiatrico, ovvero quello fenomenologico-esistenziale, sciorinando riflessioni non in forma di diagnosi bensì di generose disamine di poesie eterne e di autori della levatura di Leopardi o Hugo di von Hofmannsthal, passando per la prosa avvolgente di Karen Blixen, indimenticata autrice de La mia africa, opera ripresa in un’omonima pellicola cult degli anni ’80 con una magistrale Meryline Streep e un altrettanto encomiabile Robert Redford.  Proprio in relazione alle implicazioni del romanzo di questa autrice danese, vale la pena spendere qualche pensiero, in particolare circa la credibilità dell’esistenza  di quello strano fenomeno chiamato “mal d’Africa”, la nostalgia per l’Africa, i suoi volti e i suoi paesaggi, uno stato d’animo di cui  molte persone( più o meno note) hanno parlato nel corso della loro vita e a cui un vanto del cantautorato italiano, Franco Battiato, ha dedicato una delle sue più enigmatiche( e molto meno note) canzoni, intitolata Mal d’Africa( contenuta nell’album Orizzonti perduti) dove ai leoni e ai tramonti sulla Savana, si sostituiscono i fascinosi odori di brillantina con cui i padri siciliani pettinavano i loro capelli corvini oppure i cullanti “rumori di ringhiera”. Una mirabolante composizione che Battiato nel lontanissimo 1983 dedicò alla nostalgia, con toni certamente più impegnativi e intellettuali rispetto all’analogo tentativo sanremese e canzonettistico del duo Al Bano e Romina intitolato Nostalgia canaglia, un pezzo che pure imperversò nei primi anni ottanta nelle radio nazionali. L’ausilio della parola poetica per parlare di psicologia, in ultima analisi, da parte di Borgna è anche una sorta di omaggio, non tanto implicito, alla letteratura e alla sua capacità di scrutare nel profondo dell’animo umano,cui la stessa scienza ufficiale non può non appellarsi allorquando esaurisce il suo vocabolario e avverte l’urgenza  veicolare con efficacia certi messaggi.  Fonti consultate per le immagini : http://www.repubblica.it http://www.ilfonendoscopio.it, https://www.goodreads.com, https://www.discogs.com

La città all’epoca della tecno-scienza: la finestra sul mondo secondo Antonio Martone

Con sguardo vigile alla contemporaneità e a  ciò che sul piano intellettuale è vocato a interpretarla, Antonio Martone(professore di filosofia politica a Salerno, studioso di Merleau-Ponty e Camus, oltre che accademico con trascorsi di collaborazione con il filosofo Roberto Esposito), uomo fra l’altro animato da una grande passione per le arti figurative, decide di scandagliare le grandi questioni antropologiche emergenti partendo dalla dimensione che sembra più a portata di mano, quella urbana, davvero quotidianamente accessibile a tutti: la città.  La veste elettronica, quindi tecno-scientifica, che questa ha indossato ormai negli ultimi decenni è il punto di partenza dell’analisi di Martone, che traccia un panorama culturale dove si dipanano le dinamiche della nuova economia, con le sue inevitabili conseguenze sull’uomo odierno, costantemente minacciato da ineliminabili meccanismi estranianti.  Un’esplorazione intellettuale che elegge Tocqueville come bussola per attuare un orientamento intellettuale nel ginepraio della metropoli odierna, un atto d’amore verso i grandi classici della filosofia politica che si spiega solo con la loro innegabile credibilità. Raramente, purtroppo, ci si imbatte in saggi di intonazione filosofica con il pregio della chiarezza espositiva e nello stesso tempo della robustezza dimostrativa, nonché della puntialità dei riferimenti teorici presi in considerazione, soddisfacendo così il palato non solo dell’accademico di professione ma anche più semplicemente del lettore impegnato, alla ricerca di un invito alla lettura di strumenti concettuali più raffinati del solito. Il saggio di Martone appare, appunto, possedere questo pregio sostanziale, per cui oltre ad affrontare problematiche relative allo stravolgimento determinato dalle nuove tecnologie interattive, allarga lo sguardo a fenomeni ancora tutti da indagare, quali ad esempio la mancanza di un’organizzazione credibile di un antagonismo politico-sociale alle ideologie dominanti. Un esempio davvero apprezzabile di evitare le tentazioni di puro autocompiacimento intellettuale che ammorba non pochi “prodotti” editoriali di sedicenti filosofi televisivi contemporanei, più votati alla pubblicistica d’intrattenimento culturale che all’impegno saggistico tout court. Così, con linearità e incisività argomentativa, il saggio di Martone parte dall’assunto che senza un’adeguata genealogia della storia non sia possibile una fenomenologia dell’attualità, suggerendo così una chiave ermeneutica strutturata sull’asse Nietzsche-Foucault-Gadamer, dove l’ultimo di questi termini (Gadamer) è da intendersi come appunto sguardo sulla “storia degli effetti”(Wirkungsgeschichte), ovvero consapevolezza non dei semplici eventi bensì delle conseguenze che questi esprimono. Per cui, in una cornice stilistica asciutta e diretta, in meno di duecento pagine di libro, si alternano riflessioni in linea con recenti   e  pungolanti posizioni teoriche, che si aggiungono a intuizioni intellettuali più personali, che probabilmente avrebbero meritato un più ampio respiro trattatistico. Declinando in maniera personale la categoria di “non-luogo” di Marc Augè, Martone rivela di essere in linea con le critiche espresse all’indirizzo della tecno-politica espressa, ad esempio, dall’asiatico Byung-Chul-Han e rileva consonanze non secondarie con il nostrano Raffaele Simone già critico dei poteri “inglobanti” capaci di fagocitare qualsiasi soggetto politico potenzialmente antagonista, nonché sostenitore della “democrazia delle competenze culturali”, quale unico argine alla deriva delle banalizzazioni della partecipazione pubblica, già denunciate da Nietzsche e da Guy Debord. Sul piano delle intuizioni più personali, invece, di questo saggio spicca il capitolo dedicato all’analisi della produttività dei simboli da parte del potere, un tentativo investigativo in direzione di un’interessante prospettiva di una fenomenologia del simbolismo ad esso riferito. Un capitolo dove Martone allude esplicitamente ai pericoli insiti in tutte le formula politiche votate ad esaurire l’immaginario umano in termini di definitività simbolica, con conseguenze nefaste in termini di creatività  culturale, dove l’esaurimento dell’orizzonte del pensiero pensante coincide appunto con questa saturazione del simbolico. In parole povere, sotto la lente d’ingrandimento c’è una delle tendenze più tipiche del simbolico, ovvero la vocazione insopprimibile a sostituirsi integralmente a ciò che intende rappresentare. Le implicazione di una definitiva sostituzione in tale senso, annullerebbe proprio la creatività della dimensione simbolica, che al contrario appare vivere proprio dello “scarto”, mai colmabile del tutto, fra significato e significante, che alimentano il mondo simbolico esclusivamente proprio  nella loro reciproca e continua tensione esistente fra loro. In ultimo, Martone accenna alla questione che potrebbe occupare nel prossimo futuro i filosofi più o meno di professione: l’urgenza per l’uomo di essere davvero all’altezza dell’apparato tecnico che lui stesso ha contribuito a creare per la conservazione della sua stessa libertà. Un tema che l’autore si limita ad accennare e che avrebbe meritato un ulteriore approfondimento o che, forse, si può interpretare come un prossimo impegno intellettuale che l’autore intende onorare nei suoi successivi studi.

Liberarsi del controllo: individui e comunità nell’epoca di Twitter

L’eresia e l’ “idiozia” all’epoca dei big data: La psicopolitica secondo Byung-Chul Han

 

“Psicopolitica” è un saggio del filosofo coreano Byung-Chul Han edito dall’editore Nottetempo di Roma nel 2016. Docente di Filosofia e Studi culturali a Berlino, l’autore   medita sul panorama sociale contemporaneo, cercando di tracciarne il nuovo volto politico. Al centro della sua riflessione c’è l’impatto particolare delle nuove modalità di comunicazione che si sviluppano nella cornice della strategia di monitoraggio continuo a cui siamo sottoposti, attraverso la condivisione continua, alla narrazione di se stessi prodotta dal “post” o dal “twitt” insistente, espedienti efficaci delle nuove finalità di controllo che avviene nella polarità concettuale di “psiche” e “politica”.

Con la semplicità comunicativa tipica dei saggi che non amano sdottoreggiare, il coreano   Byung-Chul Han, in meno di centoventi pagine di libro, dimostra di aver “digerito” la grande letteratura filosofica occidentale consacrata alla critica sociale di otto-novecento, primi fra tutti Marx e Foucault. Un omaggio non celebrativo, bensì vivacemente dialettico, all’impostazione investigativa dei “maestri del sospetto”, dove il confronto teorico (in particolare con Foucault) serve all’autore per pungolare tutti noi su un interrogativo ormai ineludibile.  Nell’epoca dell’infinita possibilità di connessione e di informazione è davvero così compatibile con la nostra libertà? La domanda si lega alla trattazione del cambio di paradigma del potere che intende manipolare le masse, perché con le nuove modalità di comunicazione si assiste al definitivo passaggio dall’idea di imporre il silenzio, attraverso la censura di stato, all’invito insistente a narrare di se stessi, di “pubblicizzare” la nostra vita privata. Praticamente, nell’epoca dei social network si realizzerebbe il controllo sociale più raffinato mai conosciuto dalla civiltà occidentale, per il semplice fatto che “il controllato”, “il sorvegliato” (ovvero ogni singola persona) è complice compiaciuto del “sorvegliante” (in altre parole, il sistema). Alla luce di ciò, si comprende la provocazione elegante di questo filosofo coreano impastato di critica sociale: il recupero fondamentale dell’eresia e dell’idiozia, nella loro accezione originaria. L’effetto finale è quello di una denuncia non urlata, ma non per questo non incisiva negli esiti analitici raggiunti dal filosofo coreano, per cui  l’eresia è, infatti, la scelta libera, la rottura del dogma ufficiale, la possibilità della rottura per esercitare lo sviluppo dello spirito e dell’intelligenza; l’ “idiozia” è l’essere ignari in modo autentico, la sprovvedutezza vera di fronte alle situazioni, ovvero il possesso di una purezza interiore che apre le concrete possibilità di parlare una lunga nuova, capace di sovvertire il linguaggio cristallizzato dell’esistente. Insomma, siamo alle prese con un saggio agile e dalla prosa misurata che invita all’esercizio critico di ciò che tutti i poteri che si sono avvicendati nella storia hanno tentato di gestire in maniera indiscussa: la libertà individuale di ognuno. Una riflessione, tuttavia, che suggerisce tacitamente anche la difficoltà per l’uomo contemporaneo di mettere in campo le strategie necessarie per far fronte alla “dolce” sudditanza   cui invitano le nuove tecnologie di comunicazione, per la semplice constatazione che il condizionamento esercitato dal sistema è  spesso davvero debordante,nonchè a volte poco contenibile. Un libro che sembra proporsi come la sintesi felice dell’insegnamento di   Baumann e del nostro Luciano Floridi,  per di più impreziosito dalla sobrietà stilistica della sapienza orientale.