Il grido soffocato dei vessati: la non vita ai tempi della Germania est

I messaggi forti non sempre necessitano di mezzi eclatanti per perforare lo stomaco dei destinatari. In parole povere, non sempre vale l’assunto che per commuove si debba piangere, che per far ridere si debba banalizzare e che per far riflettere si debba vestire i panni di inavvicinabili pensatori. Il sacro fuoco dell’arte, spesso, impone al contrario l’allusione sottile, l’esplicito riferimento al non-detto che, in realtà, dice molto.

Per restituire alle nuove generazioni un’idea assai plausibile di cosa sia stata la “guerra fredda”, nonché la vita più o meno quotidiana nella parte comunista della Germania, quella collocata ad Est, debitamente separata da tutto il resto dell’Occidente da quella “muraglia cinese” che è stato il muro di Berlino, non può mancare la pellicola Le vite degli altri (Das Leben der Anderen), risalente al 2006  e firmata da Florian Henckel von Donnersmarck, insignito di numerosi premi in Germania (Deutscher Filmpreis nel 2006, in 7 categorie su 11 nomination), in Baviera (Bayerischer Filmpreis, in 4 categorie) e in Europa (European Film Awards, in 3 categorie). Arduo e ingeneroso nei confronti dei potenziali curiosi di questa pellicola sarebbe ricostruirne nei dettagli la trama, pertanto ci si limita a riferire che la storia-ambientata nell’autunno del 1984- ruota attorno ad uno scrittore spiato dalla Stasi (Ministero per la Sicurezza dello Stato), temuto organo di sicurezza e spionaggio interni, che nella persona del suo capitano, Gerd Wiesler, spia Georg Dreyman, famoso scrittore teatrale e intellettuale, reputato apparentemente innocuo per l’ideologia del Partito di Unità Socialista di Germania (SED).

Con una regia piacevolmente spiazzante, dove la quasi totale immobilità dei movimenti di macchina non inficia il filare spedito degli eventi narrati, la cui densità e profondità di messaggi è merito di una sceneggiatura dai dialoghi sontuosi, sobri, essenziali ma ficcanti come lame affilatissime che entrano nella mente dello spettatore per insinuare angoscia, turbamento e indignazione morale, così come pervasive sono le inquadrature sapienti, quasi ineccepibili in relazione all’ economia del racconto, senza strafare con inutili primissimi piani, bensì alternando campi lunghi, piani americani e primi piani sempre arricchiti di senso, grazie all’uso scaltrito della luce, accorgimento che da solo dà al regista il dono della capacità introspettiva. Un film tedesco fino al midollo, dove il controllo muscolare degli attori è solo apparentemente il segno di un’incancellabile freddezza etnica, in realtà è la chiave di tutto il film, perché è la veste sotto la quale brucia il fuoco della ribellione repressa, dell’angoscia non esternata, insomma di tutta quella vita che le raffinate e soffocanti forme di controllo in uso nella Germania est, quelle che in questa pellicola sono additate come gli strumenti di un regime che nascondeva accuratamente i dati statistici relativi ai sucidi, cui si contrappone titanicamente la fragilità dell’arte non allineata che al solito è la spina nel fianco di tutti i regimi liberticidi, laboratori criminali di ciò che sarebbe stata la società del controllo già denunciata dai filosofi Deleuze e Foucault negli anni settanta, al punto che riesce a condizionare in positivo il capitano della Stasi inducendolo ad un atto di ribellione che gli costa la carriera ma che ne preserva l’integrità di pensiero.

Un film sulla non vita degli spiati e degli stessi spiatori, vittime del loro stesso potere, intenti a consumare le loro vite fra l’anonimato della prostituzione domestica e le cerimonie ufficiali, insomma una trasposizione filmica di quanto si può evincere in libri come C’era una volta la DDR di Anna Funder, dove la veste romanzesca copre un impianto e uno spessore saggistico proprio sull’ attività di controllo sulle vite private operato dalla Stasi, un’opera ineludibile per quanti vogliano interessarsi a quanto accuratamente nascosto dai servizi segreti.

Ma Le vite degli altri è un film-come si è già detto- che si ricorda anche per le atmosfere musicalmente paragonabili a quelle intuite da un noto brano di Franco Battiato, scritto per Milva insieme a Giusto Pio, intitolato Alexander Platz, canzone nella quale la protagonista assoluta è la solitudine dei protagonisti che più che vivere la vita la immaginano per reagire alle difficoltà della vita quotidiana che non sa rinunciare alla speranza e alla dolcezza. Un film, quello di Florian Henckel von Donnersmarck, che insieme a Noi ragazzi dello zoo di Berlno  del 1981 e firmato da Uli Edel sembra davvero ricomporre le due facce della Germania all’epoca del muro, poiché dipinge con toni commoventi il lato sinistro e poco utopico di quella Germania che in realtà sognava la vita della sua gemella ad ovest, ignorandone inevitabilmente anche le ineludibili degenerazioni.

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Vivere e arrendersi senza infamia

Nell’epoca di Gomorra e dei suoi manieristici spin off l’idea di concepire un film sulla mafia può apparire, nella migliore delle ipotesi, un mero esercizio di stile (tuttavia pleonastico sul piano dell’apporto contenutistico), mentre, nella peggiore di queste, un goffo tentativo di dire la propria nell’ oceanica filmografia italica consacrata al genere malavitoso. Poco cambia, perché l’effetto finale è sempre quello del tentativo di vendere frigoriferi al Polo Nord. Al contario, Il traditore  (2019) del regista Marco Bellocchio dimostra di guadagnarsi un posto di rilievo fra le pellicole che narrano di fatti salienti relativi a Cosa Nostra.  

I motivi sono di diversa natura, a dimostrazione che un grande film è la sintesi di una raffinata tecnica registica, di emozionanti interpretazioni attoriali e di una robusta sceneggiatura.  Al giudizio di chi scrive, infatti, questo film vanta tutti e tre questi pregi, rinnovando la gloria di quella grande stagione cinematografica italiana degli anni settanta e passata alla storia per le tematiche di forte impegno civile, costellata di opere di valore immarcescibile quali Sacco e Vanzetti di Giuliano Montaldo, Un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri e Sbatti il mostro in prima pagina dello stesso Marco Bellocchio. Un’operazione culturale coraggiosa quella del registra piacentino proprio perché intende rinverdire la memoria su vicende apparentemente lontane della politica e della società italiana, sfruttando il fascino dannato del pentito Tommaso Buscetta,    il suo potenziale espressivo in termini di spendibilità narrativa,  la sua inesplicabile natura interiore di “redento ma non pentito”, senza esagerare nell’ esaltazione di un opinabile eroismo malvagio. Come già ebbe modo di dimostrare in un film dedicato alla vicenda di Aldo Moro, quel magnifico Buon giorno, notte del 2003 che all’ epoca suscitò non poche polemiche, Marco Bellocchio anche in questo caso sciorina un cinema che strega per la capacità di miscelare realtà e sogno, crudezza del quotidiano e abbandono onirico, il tutto a rimarcare il travaglio inconsolabile del protagonista, quel Tommaso Buscetta   sopravvissuto alle morti atroci dei suoi familiari, agli agguati dei suoi nemici, in ultima analisi, a se stesso. Allo stesso modo, esattamente come nella pellicola del 2003, anche ne Il traditore si gioca sagacemente   sul filo  della contiguità della fiction e della realtà storica, grazie all’ espediente di incastonare nelle sequenze girate dagli attori alcuni spezzoni di repertorio, con il risultato finale di sbattere in faccia allo spettatore una fusione perfetta fra “storia romanzata” e “storia reale”, una sorta di “documentarismo lirico” nel quale si invera uno slancio creativo che  non ha nulla di ovattato, ma che sfuma in maniera convincente nelle maglie immodificabili del dato di realtà. Un film, dunque, depurato dal didascalismo e dalle derive caricaturali, con una premura ai dettagli della ricostruzione storica che lo collocano in un posto d’onore nelle cineteche più raffinate, qualora si decidesse di mostrare ai posteri esempi credibili di cosa siano stati i fatti di mafia agli inizi degli anni ottanta in Italia, anche solo per aver riprodotto le atmosfere lugubri dell’aula bunker di Palermo, teatro del celebre maxiprocesso celebrato più di trent’anni fa, nonché luogo sinistro dove albergavano e si muovevano  mefistofeliche star del crimine organizzato.

Si è accennato alla qualità degli interpreti di questo film, primo fra tutti quel Pierfrancesco Favino che presta il corpo a Buscetta e che sulle pagine del quotidiano Il messaggero del 23 maggio 2019(data ufficiale dell’uscita del film proprio nell’anniversario della strage di Capaci ai danni del giudice Giovanni Falcone) è stato accostato a Marcello Mastronianni per la capacità di passare con estrema naturalezza dal genere brillante a quello più intimisticamente drammatico. Un paragone legittimo, oltre che condivisibile, ciononostante estendibile (con le dovute differenze e proporzioni) anche alle interpretazioni di Gian Maria Volontè, anche solo per lo sforzo di Favino di un’interpretazione introspettiva quale è quella che lui è stato capace di esprimere. Ecco, a riguardo, non è azzardato affermare che la performance di Favino è un tentativo riuscito di emulare quello del Volontè interprete del boss Lucky Luciano nel film omonimo di Francesco Rosi del 1973. Non solo l’aspetto, ma addirittura l’intonazione vocale e la gestualità di “Don Masino” sono restituite dall’attore romano con una precisione quasi chirurgica, senza tuttavia scadere nella riproduzione pedissequa e insipida. Un lavoro straordinario, consumato battuta per battuta, movimento per movimento, degno di un formidabile artigiano della professione attoriale, un cesellatore pignolo di splendidi cammei, insomma uno di quegli attori che lasciano il segno, come già si era intuito in Romanzo criminale, film di Michele Placido centrato sulle vicende della banda della Magliana.

 

 

Favino, spicca, certo, ma non è l’unico a sbalordire, perché il Luigi Lo Cascio interprete del pentito Totuccio Contorno è la conferma di un attore sensibile come pochissimi nel panorama italiano degli ultimi 30 anni, un esempio di studio maniacale nel porgere la battuta, nell’accompagnarla con il luccichio baluginate dello sguardo del fuggiasco dal cuore d’oro. Per non parlare poi di quel Fabrizio Ferracane che dona il volto al cassiere di Cosa Nostra, quel Pippo Calò che dopo aver battezzato in culla i figli di Buscetta ne è stato anche lo spietato giustiziere: lo scambio di battute in occasione del confronto con Favino-Buscetta è da consegnare agli istituti di etnografia come saggio palmare su come riprodurre una schermaglia dialettica in tutte le sue sfumature, non ultime quelle dialettali, nonché delle pause discorsive( esattamente come nel confronto vero, come si può evincere in qualsiasi ricognizione video). Forse, in cotanta espressione di talento, proprio l’interpretazione di Fausto Russo Alesi nei panni del giudice Giovanni Falcone è la prestazione con meno mordente, quasi trascurabile e priva di un sua cifra stilistica. Ma aldi là dell’estetica cinematografica, della perizia scaltrita della regia di Bellocchio e del rigore filologico della sua sceneggiatura (che sfoggia un uso del dialetto palermitano ben lontano dalle storpiature cui purtroppo siamo stati abituati dalla vulgata della commedia nazionale), questo film porta l’attenzione su una domanda fondamentale, cui nessuno può sottrarsi, mafiosi e non mafiosi: Cos’è di fatto, al netto delle valutazioni morali e non, il tradimento? O, meglio, chi si può e si deve considerare realmente un traditore? La parola “tradire” etimologicamente proviene dal latino “tradere”, che significa “consegnare al nemico”, per cui sulla base di ciò Buscetta appare, senza ombra di dubbio, un traditore, considerato che ha contribuito a consegnare alla giustizia dei criminali incalliti con cui ha avuto rapporti anche personali. Ma come lo stesso Buscetta ha sempre avuto modo di precisare, a tradire gli ideali di Cosa Nostra non è stato lui, bensì proprio gli uomini da lui segnalati all’ autorità, motivo per cui egli ha sempre ribadito di non ritenersi un “pentito”, perché nel suo intimo non ha mai ritenuto di abbandonare gli ideali di una mafia che in mano ai Corleonesi di Totò Riina   non era ormai più quella conosciuta in gioventù, perchè dimentica di un codice inviolabile su cui fondare la propria onorablità. Qui, dunque, si avverte l’emergenza di un dilemma: Si può considerare “traditore” chi prende semplicemente atto della fine di un’esperienza totalizzante della propria vita, avendoci creduto fino in fondo? Si può considerare “traditore” chi preferisce in ultimo uscire allo scoperto per il semplice motivo che non ha più senso continuare una commedia dove attori, regista e pubblico sanno di partecipare ad uno spettacolo in cui non credono neanche i principali artefici? Oppure, al contrario, l’atto del “tradire” è l’ultimo colpo di coda di una morale che si ribella all’ ipocrisia   del crimine, o, nel piccolo grigiore delle nostre esistenze, alla recita costante imposta dalla società? Forse, la risposta, è negli occhi malinconici e ironici, oltre che nel sorriso a mezza bocca, del Buscetta che portiamo dentro noi tutti. Nessuno escluso.

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Eppure, fra cemento e metallo, soffia lo Spirito…

Una città miracolosamente sopravvissuta ai fasti militari di Sparta(di cui era colonia), un ladro in fuga e un visionario sempre sul piede di entrare in una casa di cura sono i centri focali della storia narrata da Sergio Rubini nella pellicola intitolata Il grande Spirito, prodotta da Fandango, Rai cinema e Apulia Film Commission. La città è Taranto, il fuggitivo è Tonino, per il mondo criminale “barboncino”( Sergio Rubini), il folle è Renato( Rocco Papaleo). Con l’espediente   classico dell’imprevisto che sovverte i piani dell’astuto Tonino, capace di gabbare i suoi stessi compagni di   rapina, prende avvio questa vicenda surreale e umana insieme. Se non fosse per l’intonazione regionale e l’inevitabile inflessione dialettale votata alla comicità involontaria, si potrebbe parlare di un film  stucchevolmente impegnato, di quelli girati da registi che mettono soggezione con citazioni ai limiti della comprensibilità umana. Ma questo film arriva in tutta la sua carica di suggestioni solo dopo lo scorrere dei primi titoli di coda, quando appunto gli effetti della semiseriosità sono svaniti come i fumi di un’ubriacatura fugace e lo spettatore rimane inchiodato alla sedia in preda a ciò che Pirandello non avrebbe esitato a definire “umorismo”, cioè riflessione seria su quanto prima aveva strappato una risata.  L’opera  di Rubini è una sorta di piccola  summa del cinema made in Puglia, nella quale è possibile riconoscere le ambientazioni grottesche tratteggiate comicamente in pellicole  come La capa gira di Alessandro Piva, che già negli anni novanta ebbe il merito di far conoscere al grande pubblico l’atmosfera filibustiera di  Bari vecchia grazie a eccezionali maschere attoriali (una su tutte, quella di Dante Marmone); ma nella quale si può anche scovare la citazione colta e rivisitata del grande cinema italiano, come nella sequenza del bacio consumato  fra Renato e una casalinga-prostituta  sul terrazzo imbiancato dalle lenzuola sventolanti dallo stabile semiabitato teatro di tutta la vicenda, omaggio in salsa pugliese alla celebre rincorsa amorosa fra la Loren e Mastroianni in Una giornata particolare di  Ettore Scola.Elementi, questi, che impreziosiscono senza barocchismi posticci l’impresa di Rubini di mettere in scena una storia romanzata ma tuttavia credibile nei drammi personali e in quelli pubblici del disastro ambientale della Taranto martoriata dai fumi letali della siderurgia, il tutto nel sottofondo costante di un’ironia dai picchi irresistibili, che provengono dalle viscere dei protagonisti stessi e che spiazzano lo spettatore per la crudezza delle verità urlate.

Se la critica cinematografica avesse da discutere su come e quando Rubini abbia realmente raggiunto la sua maturità di regista, non potrebbe, quindi, ignorare la portata di questo film, dove l’asciuttezza quasi ieratica della fotografia di Michele D’Attanasio(mirabolante nel ritrarre il nitore dei tramonti sulle ciminiere svettanti dell’ex-Ilva, in un contrasto sublime fra organico e meccanico)  si fonde con una sceneggiatura pionieristica sul piano linguistico(una sorta di koinè dialettale  molto appiattita sul barese ma meritevolmente lontana dagli stereotipi fuorvianti di Lino Banfi)nonostante ci sia aspetti (per ovvie ragioni di ambientazione narrativa) il dialetto tarantino, con interpretazioni attoriali  proibitive per molti attori nazionali: soprattutto la performance dello scanzonato Rocco Papaleo, a nostro avviso, rivela la statura del grandissimo attore drammatico, un’interpretazione che per intensità emotiva ricorda quella di Ciccio Ingrassia in Amarcord, film di Fellini nel quale s’intuirono le inespresse potenzialità di quella che rimase per sempre soltanto la spalla di Franco Franchi.
Una trama rocambolesca ambientata in un paesaggio urbano a metà fra Beirut e Scampia, ma interamente girata dentro uno stabile scalcinato e semideserto, dove gli abitanti sbucano dalle abitazioni come i vermi meccanici delle mele-giocattolo, solo per prendere un po’ d’aria e procurarsi il cibo, muovendosi nei meandri ipnotici, oscuri e malinconici di quello che appare un rompicapo edilizio alla Escher, dove l’enigmicità del percorso è  già dal sola il ritratto inesorabile della prigionia interiore che attanaglia i suoi abitanti. Ma il valore del film consiste anche nella crudezza di sottofondo mai abbandonata dal regista, con un finale che evita accuratamente la soluzione strappalacrime, optando invece per  la meraviglia dell’imprevisto( alla fine Il Grande spirito si rivela) e lo smarrimento di fronte alla tragedia, che non cambia totalmente la condotta morale dei personaggi (Tonino non lascerà il malloppo, ma imparerà a pensare anche agli altri), ma ne fa intravedere gli impercettibili mutamenti interiori. Spesso, la critica abusa con espressioni quali “poesia”, “arte”, “lirismo” per encomiare un’opera capace di entusiasmare il suo occasionale fruitore, scandendo così nella scontatezza dello stereotipo che, al netto delle valutazioni, non dice nulla di credibile sull’opera di cui s’intende discettare. Nel caso del film di Rubini, al contrario, l’uso di queste parole rivela un suo fondamento, anche solo per la semplice osservazione che nelle arti figurative c’è stata la cosiddetta “arte industriale”, capace di sublimare ingranaggi e pannelli metallici nell’ empireo dell’immaginazione umana, nonché di stravolgere la brutalità degli usi produttivi in vere e proprie dimensioni metafisiche. Proprio questo, in ultima analisi, è forse il più grande risultato raggiunto da Rubini in termini di estetica cinematografica: aver trasformato travi di cemento e tralicci d’acciaio in rami di una grande foresta immateriale e invitta, dove il soffio delle speranze umane, della potenza del Sacro stesso, può soffiare sulla condizione umana. Qualunque sia il suo corso e il suo inesorabile destino.

 

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