Una partita a scacchi che poteva costarci cara: La Guerra fredda di “Wargames”
di Francesco Clemente
“Wargames” è un film statunitense del 1983 del regista John Badham, con musiche di Arthur B. Rubinstein e gli attori Matthew Broderick, Dabney Coleman, John Wood, Ally Sheedy, Barry Corbin, Juanin Clay, Kent Williams, Dennis Lipscomb, Joe Dorsey. Fu presentato fuori concorso al 36º Festival di Cannes, suscitando un vivo interesse circa i rischi dei sistemi informatici preposti al controllo dei sistemi di difesa missilistici a testata atomica, proponendo temi e argomenti tipici dei primi anni ottanta caratterizzati dalla corsa agli armamenti, dallo stallo degli accordi SALT e dal dispiegamento degli euromissili, denunciando, infine, la possibilità di un’autodistruzione di massa.
Per chi, ormai, ha varcato la soglia dei quarant’anni è abbastanza facile ritrovare nel ripostiglio dei ricordi di questo film cult degli anni ’80. All’epoca iniziavano a diffondersi i primi personal computer per cui chi ha memoria sa che in famiglia si accendevano le dispute su quale fosse il migliore fra quei “giocattoli” informatici che stavano aprendo un nuovo universo nella vita di ognuno. A parte il mitico Vic 20, moltissimi per non dire tutti di quella generazione ricordano il mirabolante Commodore 64, con quel sistema di trasmissione dei dati che passava attraverso un registratore magnetico esterno all’hardware di quella scatola magica che ha fatto sognare milioni di adolescenti. Questo film di Badham, di fatto, rappresentò un implicito omaggio a questi gingilli della Commodore, ma fu anche un elogio all’intelligenza non riconosciuta di quegli adolescenti che si annoiavano a scuola, nascondendo dei talenti straordinari che famiglia e società non riuscivano proprio a vedere. Sì, perché la storia di questo film è quella del giovane David Lightman, appassionato di informatica, abile e promettente hacker che vuole introdursi nel computer di una nota casa di videogiochi, la Protovision, che sta per lanciare una collana di nuovi prodotti. Nel tentativo di connettersi a tutti i computer dello stesso stato in cui ha sede l’azienda, ovvero la California, il ragazzo riesce invece a raggiungere un supercomputer del NORAD studiato per rispondere ad un attacco missilistico: lo WOPR (War Operation Plan Response). Involontariamente si scatena un putiferio, perché questo calcolatore, ubicato nella base fortezza di comando NORAD, valuta azioni e contromosse ad un eventuale attacco russo basandosi sull’esecuzione di numerosi giochi strategici: una volta letto l’elenco di tali giochi, David si convince di aver raggiunto la Protovision ed inizia una partita a Guerra Termonucleare Globale contro lo WOPR, partita nella quale assume il ruolo dei sovietici. Dopo pochi minuti David deve abbandonare la connessione, ma il super-computer ha già avvertito gli stati maggiori dell’esercito segnalando un attacco nucleare imminente, che portano lo stato della difesa (DEFCON) degli Stati Uniti d’America sempre più verso la guerra. Ci si limita a questa breve sintesi della trama, senza svelarne il finale perché sarebbe un peccato per chi volesse gustarsi il finale avvincente e autoironico. Un film che alla fine stempera il crescendo della tensione in un lieto fine abbastanza prevedibile, senza tuttavia rinunciare ad un suo spessore di fondo. Dunque, vale la pena soffermarvisi, anche perchè all’epoca esso apparve a qualcuno come l’ennesimo tentativo sensazionalistico per denunciare i pericoli della guerra fredda, per di più con una certa ruffianeria che strizzava l’occhio alle abilità non riconosciute degli adolescenti irrequieti. Il motivo è presto detto: non tutti sanno e forse non tutti ricordano che nel 1983, lo stesso anno di uscita del film, il mondo andò molto vicino allo scoppio di una guerra nucleare. A sventarla fu un ufficiale russo che non si fece prendere dal panico in occasione di un errore del sistema missilistico del suo paese.
I riferimenti alla cronaca dell’epoca
Chi è stato Stanislav Petrov? Molto semplicemente, l’uomo che ha salvato il mondo dalla terza guerra mondiale, senza avere un adeguato riconoscimento per ciò che è stato in grado di fare. Il fatto risale al 26 settembre del 1983 durante la Guerra Fredda tra gli Stati Uniti e l’Urss. All’epoca era un tenente colonnello dell’esercito sovietico e quella notte si trovava all’interno del bunker Serpukhov-15, situato sul confine occidentale dell’Urss, per monitorare i cieli russi e lanciare l’allarme in caso di attacchi nucleari americani. Il bunker era dotato di uno dei fiori all’occhiello della tecnologia militare sovietica: il Krokus, un sistema informatico avanzatissimo che permetteva di monitorare le attività missilistiche americane di tutto il mondo. Insomma qualora gli Usa avessero deciso di lanciare qualunque arma distruttiva, i sovietici li avrebbero immediatamente sgamati e soprattutto sarebbero stati in grado di passare al contro-attacco. Ma proprio quella sera la spia del Krokus si accese prevenendo l’arrivo di un missile nucleare appena scagliato dalla base militare del Montana. I radar intercettori erano sbagliati, nonostante i tecnici fossero convinti del contrario. La verità è che non era vero che gli Stati Uniti avevano lanciato decine di missili termonucleari contro l’Unione Sovietica; lui non seguì la procedura, non avvertì il Cremlino che avrebbe avuto meno di quindici minuti per decidere di reagire, facendo partire bombe atomiche dirette verso l’America e l’Europa. In quei pochi minuti che seguirono l’allarme dato a mezzanotte e quindici minuti, Petrov salvò il pianeta dall’olocausto nucleare. I suoi superiori, quando poi si chiarì che si era trattato di un errore del sistema, decisero di non premiarlo. Il colonnello, anzi, ricevette un richiamo per non aver seguito la procedura standard e la sua storia è rimasta segreta fino al crollo dell’Unione Sovietica. Ma anche dopo, in Russia non si è quasi mai parlato di Petrov. Il colonnello ha ricevuto qualche riconoscimento all’estero, ma nulla in patria. Alla fine, l’uomo che ha salvato il mondo è morto come è vissuto: nell’anonimato, senza riconoscimenti o quasi, in un misero appartamento di una cittadina satellite di Mosca. Per mesi, anzi, nessuno ne ha saputo nulla e la notizia è trapelata solo ora perché qualcuno l’ha cercato nell’ anniversario di quel 26 settembre 1983.
L’atomica, la guerra fredda e il pericolo attuale alle soglie del 2018
Wargames è un film che ci interroga su più livelli di discussione. In primo luogo, ci sbatte in faccia l’ovvietà della distruttività delle armi nucleari. Un dato, se vogliamo banale ma neanche troppo a pensarci bene, visto che da qualche hanno certi dittatori asiatici giocano a minacciare un conflitto atomico con gli Stati Uniti, che dal canto loro non si fanno saltare la mosca al naso. Per cui, rivedere questo film degli anni ’80 forse farebbe bene a chi, fra uno spot pubblicitario e l’altro, non si rende minimamente conto di cosa possa comportare un pericolo del genere, confidando forse eccessivamente nella “distanza” delle immagini riportare dai media, nella tacita convinzione che le guerre sono sempre lontane e, soprattutto, “altrove”. Se la Guerra fredda fra Stati Uniti e Unione sovietica deve il suo nome al fatto che “calda” non lo è mai stata, in quanto conflitto geopolitico giocato sullo scacchiere del mondo con strategie di finanziamento a governi compiacenti, alleanze militari, sgarbi diplomatici, e soprattutto con una competizione economico-militare, è altrettanto vero che essa è stata in alcuni momenti storici sul punto di scoppiare all’insaputa del mondo intero, come appunto la vicenda di Petrov ha avuto modo di dimostrare. In secondo luogo, è bene sottolineare il fatto che questo film pose in primo piano il ruolo dei sistemi di controllo “intelligente” e artificiale nella gestione di ambiti delicatissimi come quello militare, denunciando implicitamente l’eccessiva fiducia umana risposta in tali sistemi. Sicché, sempre in relazione alla vicenda di Petrov del 1983, non si può eludere un’altra domanda: il fattore umano, ormai dato per subordinato nei confronti dell’intelligenza artificiale, è ancora determinate per la soluzione di questioni cruciali oppure si può mettere in soffitta in questo senso? Insomma: è giusto che i sistemi artificiali abbiano carta bianca in decisioni di cui ne va del destino dell’intera umanità? “Can che abbaia non morde”, è l’espressione che si suol dire quando si allude alle scaramucce fra potenti, oppure di un potente all’indirizzo dei malcapitati. Alla fin fine, qualcuno direbbe, quella guerra è sempre rimasta “fredda”.
Tuttavia, all ’indomani dello scoppio delle primissime bombe nucleari in Giappone nel 1945 e della prima bomba H, come si può pensare che debba essere sempre così? Non è che forse ci siamo fin troppo cullati a quel copione internazionale della competizione fra americani e sovietici, al punto da pensare che l’atomica forse non esiste più e faccia parte di una fiction creata ad arte? Ale soglie del 2018, tuttavia, una considerazione ironica si può fare, tutta a vantaggio di questo bel film del 1983, nel quale John Lennon, se non fosse morto 3 anni prima, avrebbe dovuto avere la parte di uno scienziato-filosofo ormai eremita nei confronti del mondo: la realtà oggi, forse è peggiore dello scenario tracciato dal film, perché mentre nella finzione la guerra termonucleare poteva scoppiare per un errore tecnico, nella realtà può scoppiare per la volontà perfettamente cosciente dei governati. E questa volta, non sarebbe solo una partita a scacchi, bensì qualcosa ben più grave.
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https://etuttaunaltrastoria.com/wp-content/uploads/2017/10/Wargames-in-evidenza.jpg450302Francesco Clementehttps://etuttaunaltrastoria.com/wp-content/uploads/2017/10/logo-altra-storia.pngFrancesco Clemente2017-10-29 15:17:512025-01-12 19:04:59Il gioco d’azzardo della Guerra fredda: un film del 1983 per riflettere sulla bomba atomica
La favola di John Huston in realtà non ebbe un lieto fine: “Fuga per la vittoria “ e la “partita della morte”
di Francesco Clemente
“Fuga per la vittoria” è un film di John Huston del 1981. Ispiratosi liberamente a fatti realmente accaduti nel corso della seconda guerra mondiale, la pellicola è una vera chicca per gli amanti del cinema a sfondo sportivo. Fra i protagonisti, infatti, ci sono fra i più grandi giocatori di tutti i tempi, fra cui il più grande: Pelè. Nel cast anche il piccolo grande giocatore argentino Ardiles, che passò il testimone al grandissimo Maradona nel calcio argentino della fine degli anni ’70. Fra i divi del cinema compaiono Sylvester Stallone e Micheal Kane, entrambi in grande spolvero in questa vicenda realmente accaduta, ma conclusasi in modo assai diverso dai fatti accaduti nella realtà.Il film, a seconda del paese di proiezione, ha subitgo una censura più o meno “severa”: in Germania Ovest è stato vietato ai minori di 6 anni; in Norvegia, Finlandia, e nei Paesi Bassi ai minori di 12; in Svezia ai minori di 15. In Australia, Singapore, e negli Stati Uniti d’America è stato valutato con l’acronimo PG, vale a dire che la visione del film è consentita ai bambini con la presenza di un adulto.
Epica e Sport
Il XX secolo, fra le infinite cose che ha insegnato ha stabilito che lo sport può diventare epica. Insomma, il secolo appena trascorso ci ha detto anche questo: un incontro di pugilato, una corsa di velocità, non ultima una partita di calcio possono diventare argomento da raccontare davanti al camino per incantare gli ascoltatori. Si arriva ad un punto in cui, il diretto destro o il dribbling diventano un momento estatico, pura magia. La stessa cosa si può asserire circa il film di John Huston Fuga per la vittoria, se si tiene conto della tecnica con cui il regista americano è riuscito a montare una cosa difficilissima: una partita di calcio nella quale si doveva far spiccare, fra le tante azioni di gioco,il gesto irripetibile, quello che ci fa balzare dalla sedia e ti lascia senza fiato. Come quella rovesciata di Pelè che sembra incidersi nel cielo all’altezza del sole come un marchio fiammeggiante, un segno che gli dei lasciano ai comuni mortali per ricordare loro che esistono davvero. Uno spettacolo nello spettacolo. Qualcosa che per noi italiani fa comprendere perché per anni sulle bustine delle figurine Panini era impressa quel gesto tecnico incredibile, che sfida la gravita: la rovesciata, appunto. Perché come ebbe anche a dire Pasolini, il calcio ma lo sport in genere può diventare un’espressione artistica, addirittura un’immagine in cui un’intera epoca è capace di rispecchiarsi. Il film, è liberamente ispirato alla famosa “partita della morte” tenutasi a Kiev il 9 agosto 1942 tra una mista di calciatori di Dynamo e Lokomotiv e una squadra composta da ufficiali dell’aviazione tedesca Luftwaffe, ed è da quei fatti che si deve partire per inquadrare l’interpretazione che il regista ne ebbe a dare.
La vicenda storica
Per ricostruire i fatti della partita poco conosciuta, ma realmente disputatasi, riportiamo quanto ricostruisce Filippo Marcianò in un suo articolo a riguardo:
“Tutto iniziò con l’invasione tedesca dell’Unione Sovietica nel giugno 1941. Il 22 giugno 1941, giorno in cui la squadra di calcio della Dinamo Kiev doveva inaugurare il nuovo Stadio della Repubblica, l’odierno Olimpiiyskiy, la città venne bombardata e in settembre le truppe della Wehrmacht occuparono la capitale ucraina. A questo punto entra in scena Iosif Ivanovič Kordik, un Ceco della Moravia, nato nell’Impero Austro-Ungarico, che aveva combattuto la Prima Guerra Mondiale per gli Asburgo; ferito in combattimento, era stato costretto a rifugiarsi a Kiev, dove era rimasto per il resto della sua vita. Qui si trovò a dirigere l’importante panificio cittadino per cui lavorava. Kordik era un appassionato di sport: si offrì di assumere Nikolai Trusevich, portiere della Dinamo Kiev, nel suo panificio. Il portiere aveva lavorato per vent’anni come ingegnere panificatore, ma dovette accettare un posto come inserviente, con la mansione di spazzare il cortile della fabbrica: le leggi naziste gli impedivano, essendo un nemico del Reich, di tornare a esercitare la sua vecchia professione. Kordik voleva circondarsi di figure che avessero avuto un certo prestigio sportivo e fornire ai propri dipendenti, attraverso lo sport, una valvola di sfogo perché producessero di più e lavorassero meglio. Fu così che Kordik chiese a Trusevich di andare in cerca dei suoi vecchi compagni, per formare una squadra di calcio del panificio: i giocatori assunti avrebbero ottenuto un posto per dormire, qualcosa da mangiare e una piccola protezione dalle angherie del Reich. Così il portiere riuscì ad allestire la squadra nella primavera del 1942, radunando sia giocatori della «vecchia» Dinamo Kiev che della Lokomotyv Kiev, la seconda squadra della capitale ucraina. Nel frattempo Kiev cercava di resistere all’occupazione tedesca: organizzazioni clandestine tentavano di mantenere alta la speranza degli abitanti della città e, in alcuni casi, ne organizzavano la fuga verso i territori ancora sotto il controllo dei Sovietici (inizialmente, molti Ucraini avevano accolto i Tedeschi come liberatori, credendo ingenuamente che la nuova situazione sarebbe stata favorevole anche per loro; si sarebbero ricreduti presto!). I Tedeschi pensarono di piegare lo spirito fiero degli Ucraini affidandosi alla propaganda e al calcio, organizzando un vero e proprio torneo. La stagione calcistica avrebbe avuto il suo calcio d’inizio il 7 giugno 1942 e avrebbe visto la partecipazione di sei squadre: quella di Kordik, quattro formate da truppe tedesche, ungheresi e rumene, e la Ruch (ucraina). La squadra di Kordik, battezzata FC Start, venne subito iscritta al campionato. Ne facevano parte Nikolai Trusevich, Mikhail Sviridovskiy, Nikolai Korotkikh, Aleksey Klimenko, Fedor Tyutchev, Mikhail Putistin, Ivan Kuzmenko, Makar Goncharenko della Dinamo Kiev, e Vladimir Balakin, Vasiliy Sukharev, Mikhail Melnik della Lokomotyv Kiev. Fu nominato capitano Trusevich, il portiere, noto per la sua agilità e per il suo stile di parata spettacolare. Ad affiancarlo nelle decisioni era Mikhail Putistin, veterano della squadra che vinse l’argento nel Campionato Sovietico del 1936. Mikhail Sviridovskiy, colonna della Dinamo di dieci anni prima, divenne l’allenatore della Start: tornò a indossare gli scarpini, posizionandosi in difesa insieme a Fedor Tyutchev ed al veloce Aleksey Klimenko, terzino minuto, ma arcigno. A centrocampo si attestò Nikolai Korotkikh, personaggio calcistico di second’ordine; però l’attacco della Start era formato da Mikhail Melnik affiancato da Ivan Kuzmenko, che vantava una buona presenza fisica e un tiro potente e preciso. Makar Goncharenko, basso e compatto, ma allo stesso tempo veloce e talentuoso, possedeva visione di gioco e classe, oltre all’abilità di servire i compagni in maniera precisa e di sfruttare ogni spiraglio di porta che offrisse la possibilità di segnare. Goncharenko narrò che Putistin e Trusevich trovarono in un magazzino una divisa con cui disputare il campionato, di colore rosso.
«Non abbiamo armi» disse Trusevich «ma possiamo combattere per la vittoria in campo. Indosseremo questo colore, il colore della nostra bandiera: i fascisti devono imparare che questo colore non si piegherà». Trusevich trovò per se stesso una maglia nera con finiture rosse, da utilizzare come divisa da portiere. Nonostante i massacranti turni di lavoro al panificio, la scarsa alimentazione e la precaria condizione fisica, il 7 giugno la Start iniziò il proprio campionato giocando allo Stadio della Repubblica contro la Ruch, una squadra appoggiata dal movimento nazionalista ucraino anti-sovietico e filo-tedesco. Risultato: 7-2 per la Start. Siccome la cosa fece un po’ troppo rumore, i Tedeschi ordinarono di far giocare le altre partite in un impianto più piccolo, lo stadio Zenit (attuale stadio Start).Lo Zenit fu inaugurato con una vittoria 6-2 sulla squadra ungherese, seguita pochi giorni dopo da un perentorio 11-0 ai danni della squadra rumena. Le vittorie della Start iniziarono a significare molto per la popolazione di Kiev: per molti furono un’ispirazione a resistere, uno sprone a tenere alto il morale, un appiglio per non lasciarsi schiacciare dai nazisti.Il 17 luglio la Start incontrò per la prima volta una squadra tedesca, la PGS, affondandola sotto il peso di un pesante 6-0, mentre un’altra squadra ungherese, l’MGS Wal, perse 5-1 due giorni più tardi. La rivincita dell’incontro con l’MGS Wal, organizzata dai nazisti per piegare fisicamente i giocatori e costringerli alla sconfitta, finì 3-2: la Start stava diventando un simbolo della resistenza di Kiev.I comandi militari decisero quindi di mandare a giocare a Kiev il Flakelf, la più forte squadra militare tedesca di stanza in Ucraina, formata da militari della Luftwaffe e considerata invincibile. Il risultato del 6 agosto fu un’altra volta una larga vittoria della Start: il Flakelf fu sconfitto 5-1, proprio nei giorni in cui Stalin proclamava che l’Unione Sovietica non avrebbe fatto un solo passo indietro. In sette partire, 43 goal fatti e solo 8 subiti!L’ultima occasione per piegare la Kiev calcistica sarebbe stata il 9 agosto: rinforzando la squadra con alcuni tra i migliori calciatori dell’esercito tedesco impiegati sul fronte ucraino, i nazisti organizzarono la rivincita. La partita venne annunciata con una grande campagna pubblicitaria, manifesti vennero affissi su tutta la città ed i giornali pubblicarono articoli che elogiavano la forza del Flakelf. Prima della partita un arbitro tedesco fece il suo ingresso nello spogliatoio della Start, intimando ai giocatori: «Quando arriverete a metà campo, ricordatevi di gridare con tutto il fiato che avete in gola, Heil Hitler». Dopo il saluto dei Tedeschi, però, i giocatori della Start abbassarono la testa per un attimo e fecero il saluto che era di costume nello sport sovietico: «Fitzcult Hurà!», «Viva la cultura fisica». (Tra l’altro, Hurà era anche il grido di combattimento dei soldati dell’Armata Rossa quando andavano all’assalto, e molti Tedeschi lì presenti lo avevano già sentito bene in battaglia).Le gradinate dello stadio erano piene di soldati della Wehrmacht in uniforme: giubba in panno verde, calzoni infilati negli stivali, aquila sul taschino destro, elmetto con le caratteristiche sporgenze a secchio di carbone, cinturone con la tracolla, contenitore a tubo della maschera antigas, le granate dal manico di legno. E armi in quantità: comprese un bel po’ di mitragliatrici Mg, le micidiali «seghe di Hitler» dalla canna bucherellata.
In un piccolo settore vi erano Ucraini, vecchi, donne e bambini. In un pomeriggio dove il «caldo spaccava anche i cocomeri», come ha raccontato Valentina Goncharenko, allora tredicenne, le squadre si presentarono in campo alle cinque. I Tedeschi erano ben pasciuti, ben vestiti, impomatati e con undici riserve a disposizione; di fronte avevano i macilenti Ucraini, con braghe cascanti, traballanti sulle gambe ossute, malnutriti e senza nessuna riserva. E con l’arbitro tedesco, pure! I Tedeschi ci diedero dentro da subito e senza mezzi termini. Picchiavano, insultavano, provocavano. Dalle gradinate, le Mg sparavano contro le gambe dei giocatori ucraini. I falli dei nazisti venivano regolarmente ignorati dal direttore di gara, quelli degli Ucraini erano segnalati tutti. Un’azione dalla dubbia regolarità, un palese fuorigioco e un calcio in testa al portiere Trusevich in una mischia sottoporta che lo fece rimanere alcuni minuti a terra stordito, permisero ai Tedeschi di passare in vantaggio. Ma in meno di venti minuti i giocatori della Start segnarono tre volte. Il primo goal lo fece Kuzmenko da trenta metri di distanza, su punizione: la sfera si insaccò, bassa, alla destra del portiere tedesco. Poi, una doppietta del bomber Goncharenko (con il primo goal frutto di una serpentina in area e il secondo con una mezza rovesciata) portò la propria squadra sul 3-1. Durante l’intervallo fece il suo ingresso negli spogliatoi un ufficiale delle SS: «Siamo veramente impressionati dalla vostra abilità calcistica e abbiamo ammirato il vostro gioco del primo tempo – disse l’ufficiale, in un russo impeccabile –. Ora però dovete capire che non potete sperare di vincere. Prima di tornare in campo, prendetevi un minuto per pensare alle conseguenze». Nel secondo tempo, dopo uno sbandamento iniziale che permise ai Tedeschi di portarsi sul 3-3, lo Start decollò e segnò altre due volte: 5-3. Il difensore Klimenko poco prima del fischio finale dribblò la difesa del Flakelf e il loro portiere, osservò, sprezzante, la tribuna degli alti ufficiali tedeschi e invece di buttare la palla in rete spazzò il pallone il più lontano possibile, verso il centro del campo: uno sfregio bello e buono. Al termine della partita, cominciò a farsi strada nella mente degli Ucraini l’idea che la loro vita non valesse più nulla e che, con il fischio finale, si era sancita anche la fine delle loro vite. Racconta Goncharenko che «ci trovammo in un silenzio cupo, tetro dello stadio vuoto, soli in mezzo al campo, capimmo di aver firmato con i nostri goal anche la nostra condanna a morte… Ci attardavamo sul campo, come se stando lì fossimo al sicuro, salvi. La paura cominciò a impadronirsi di noi, avevamo fatto semplicemente quello che ritenevamo giusto, non per essere eroi, ma solo come Ucraini che avevano una dignità ed un onore di uomini e di calciatori… Adesso eravamo spaventati per quello che ci aspettava… Avevamo di nuovo la stessa paura dell’inizio partita, che avevamo scacciato con quell’urlo di Hurà, talmente tanta paura da avere persino paura di mostrarla…». La settimana dopo gli Ucraini trovarono comunque il tempo di dare la rivincita alla Ruch, umiliandola per 8-0. E fu la fine. Alcune settimane più tardi iniziarono gli arresti. Il primo ad essere portato via fu Nikolai Korotkikh. Korotkikh era un ufficiale in servizio della polizia segreta: fu arrestato il 6 settembre, e morì dopo venti giorni di tortura nel quartier generale della Gestapo in Korolenka Vulycja. Ma ci sono molte versioni di come si determinarono gli eventi di morte sui giocatori ucraini. Anche gli altri giocatori subirono le torture della Gestapo, prima di essere deportati nel campo di concentramento di Syrec, poco fuori Kiev, amministrato dal feroce Paul von Radomsky, Obersturmbahnführer delle SS. Goncharenko e Sviridovskiy riuscirono a fuggire insieme: il primo, molti anni dopo, raccontò la propria versione della storia della Partita della Morte, e fu l’unico che ne parlò. Tre giocatori persero la vita a Syrec: Kuzmenko, Klimenko e Trusevich, tutti e tre nella stessa occasione. La loro morte viene raccontata da un sedicente testimone oculare, ma il racconto stesso conserva i tratti della leggenda e ci presenta tre morti quasi stereotipiche, che enfatizzano i tratti salienti del carattere dei tre giocatori. La mattina del 24 febbraio 1943 Radomsky ordinò una rappresaglia per un tentato attacco incendiario al campo. I prigionieri vennero disposti in fila: una persona ogni tre veniva colpita alla testa col calcio del fucile e freddata con una pallottola alla nuca. Ivan Kuzmenko, il gigante dell’attacco della Start, fu colpito in mezzo alle scapole dal calcio del fucile, vacillò e, benché stremato dalla fame e dalla fatica, rimase in piedi. Resistette a diversi colpi, prima di accasciarsi al suolo e ricevere il proprio proiettile. Aleksey Klimenko, il minuto difensore che aveva umiliato il Flakelf sul finire della partita, crollò immediatamente a terra e fu finito da una pallottola dietro l’orecchio. Nikolai Trusevich, il portiere, sentì i passi delle SS fermarsi alle sue spalle. Si preparò a ricevere il colpo, ma finì ugualmente per terra. Si rialzò, con tutta l’agilità che l’aveva reso il miglior portiere dell’Unione Sovietica e, mentre la guardia apriva il fuoco, urlò: «Krasny sport ne umriot!», «Lo sport rosso non morirà mai». Morì nella sua divisa da gioco nera e rossa, l’unico indumento caldo che possedeva, colpito da una raffica di mitra. È difficile ricostruire la vera storia della Partita della Morte, anche perché i giocatori vennero considerati dall’opinione sovietica dei disertori che, invece di combattere in difesa di Stalingrado e Mosca, si erano imboscati e si erano intrattenuti con l’invasore in partite di calcio. I giocatori che sopravvissero alla guerra non furono perseguitati dal regime, che preferì sfruttare la vicenda a fini di propaganda, colorando, esagerando e distorcendo a proprio piacimento la storia di Trusevich e compagni. La prima testimonianza della partita è un articolo pubblicato il 16 novembre 1943 dall’organo ufficiale del governo sovietico, «Izvestiya», che parlava solo dell’esecuzione di alcuni sportivi da parte dei Tedeschi. Il giornalista Petro Severov nel 1958 raccontò la vicenda in modo dettagliato su un giornale di Kiev, in un articolo intitolato L’ultimo duello. L’anno dopo la trattazione si allungò e diventò un libro, firmato dallo stesso Severov assieme a Naun Khalemsky. Vennero successivamente le memorie di Makar Goncharenko, il superstite, e tre film di successo (due russi ed uno americano, a cui abbiamo accennato all’inizio). Nel 1994, nel suo libro Calcio e potere, Simon Kuper raccontò di un viaggio in Ucraina alla sede della Dinamo Kiev da lui fatto due anni prima, dall’esito sorprendente: «L’addetto stampa mi raccontò la storia della partita, e poi mi chiese di non scriverla: perché non era vera. La partita era un mito ideato dopo la guerra dal Partito Comunista locale. Senza dubbio una partita c’era stata, visto che un sopravvissuto [probabilmente Makar Goncharenko], di ottantasei anni, viveva a Kiev, ma aveva oculatamente scelto di starsene zitto». E nel 2004 Karel Berkhoff pubblicò per la Harvard University Press Harvest of Despair: Life and Death in Ukraine Under Nazi Rule, che ha permesso infine di ricostruire la verità. Nel 1981 lo Stadio Zenit di Kiev, che aveva visto il massacro, venne ribattezzato Stadio Start. Di fronte ad esso, una grande scultura di Ivan Horovyj (1971) mostra quattro figure maschili in calzoni corti, alte tre metri e con pettinature anni Quaranta, che vanno a braccetto con lo sguardo perso nell’orizzonte. Ha scritto Stefan Olyjnyk: «Per il nostro presente / sono morti nella lotta / la vostra gloria non si spegnerà, / eroi, atleti senza paura». Un fatto analogo si verificò anche in Italia, e precisamente a Sarnano, un paesino delle Marche, quando un sergente nazista appassionato di calcio scoprì che in paese viveva Mario Maurelli, un arbitro noto anche in Germania. Bussò alla sua porta e lo invitò a trovare undici ragazzi italiani per una sfida contro i nazisti – ma undici giovani di Sarnano, nel 1944, significava undici partigiani. Maurelli non poteva sottrarsi, come racconta nel documentario di Umberto Nigri La leggenda di Sarnano. Nella squadra italiana giocava Libero Lucarini. Proprio Lucarini, quel 1° aprile 1944, scivolando di proposito, fece pareggiare la squadra tedesca, dopo che il centravanti Grattini – in modo improvvido – aveva portato in vantaggio gli Italiani. A differenza degli Ucraini, i partigiani italiani preferirono infatti pareggiare: fatto che, alla fine, permise loro di scappare tutti in montagna… proprio come nel film Fuga per la vittoria…”( http://www.storico.org/seconda_guerra_mondiale/partita_morte.html)
Nel corso della seconda guerra mondiale, nel 1942, un ufficiale tedesco in visita ad un campo di concentramento per prigionieri alleati, il maggiore Von Steiner, in passato calciatore che fece parte anche della Nazionale, riconosce tra gli ufficiali britannici prigionieri un suo ex collega, il capitano John Colb cui propone di l’idea di organizzare un incontro di calcio tra una selezione di calciatori Alleati e la squadra sportiva di una vicina base tedesca. All’inizio i compagni di prigionia di Colby si dichiarano contrari all’iniziativa, sicuri che il comando britannico non approverebbe: essi sono infatti consci che la propaganda tedesca potrebbe sfruttare l’evento per caricarlo di significati extra-sportivi. Ma Colby è stimolato dal confronto, anche perché tra le truppe britanniche può vantare giocatori di livello come il soldato inglese Brady, lo scozzese Hayes e il coloured originario di Trinidad Luis Fernandez, oltre a quelli disponibili tra i prigionieri alleati, il belga Filieu, l’olandese van Beck e il norvegese Hilsson. Un prigioniero canadese, Hatch, benché non sia capace di giocare a calcio chiede ed ottiene di aggregarsi al gruppo, poiché per colpa loro il suo piano di fuga sta per andare in fumo. Colby si convince e ne giustifica quindi la presenza in squadra adducendo il motivo che ha bisogno di un preparatore atletico. Come gli altri ufficiali britannici avevano supposto, il comando tedesco, volendo trasformare l’evento in un veicolo di propaganda, toglie di mano a Von Steiner l’organizzazione dell’incontro. Von Steiner capisce subito che, a quel punto, la partita non avrà più significato sportivo e il comando tedesco metterà in atto qualsiasi stratagemma per vincere e conquistarsi il primato d’immagine di fronte agli Alleati.
La fuga di Hatch
Hatch prima di fuggire viene incaricato di mettersi in contatto con la Resistenza francese. Deve raggiungere quindi Parigi, dove alcuni partigiani, saputo che i tedeschi vogliono organizzare la partita allo stadio di Colombes, si adoperano per organizzare la fuga dei calciatori Alleati durante l’intervallo tra i due tempi: essi fuggiranno dai lavatoi, che comunicano direttamente con la rete fognaria, ben conosciuta dai membri della resistenza che lavorano nei servizi comunali. Occorre che qualcuno avverta la squadra del piano in atto: tocca ancora al canadese sacrificarsi: si lascia catturare di nuovo dai tedeschi vicino al campo di prigionia per essere sicuro di farsi rimandare allo stesso posto e di poter comunicare le informazioni sulla fuga a Colby. Il problema è ora farsi reinserire in squadra, ma egli non sa giocare a calcio ma solo a football americano. Colby avendolo visto parare in allenamento gli assegna il ruolo del portiere. Siccome tuttavia un portiere titolare esiste già, e il comando tedesco ha esonerato dal lavoro solo undici soldati per prepararsi all’incontro, il portiere viene convinto a lasciarsi rompere un braccio per giustificare la sua sostituzione con Hatch. Il giorno dell’incontro, lo stadio di Colombes è pieno di francesi, e decorato con i fregi della propaganda tedesca, in primis le bandiere con le croci uncinate. L’ambiente è chiaramente ostile ai tedeschi, e lo si nota maggiormente durante l’esecuzione dell’inno Deutschland über alles…: gli unici tedeschi nello stadio sono militari.
L’influenza della propaganda
Lo speaker, che commenta la partita a beneficio dei radioascoltatori, propone in sottofondo degli applausi preregistrati per dare l’impressione che la folla sia entusiasta della prestazione tedesca. Come paventato da Von Steiner, un pavido arbitro non è in grado di tenere in mano l’incontro in maniera imparziale e sorvola su numerose scorrettezze dei tedeschi, che infatti si portano in vantaggio fino al 4-0 prima che gli Alleati realizzino il gol della bandiera (con Brady su cross dalla sinistra). Al termine del primo tempo negli spogliatoi è tutto pronto: i resistenti parigini hanno rotto il tramezzo che separa i lavatoi dal tunnel di fuga, ma prima alcuni giocatori, poi anche Colby, rifiutano di scappare perché sono convinti di poter ribaltare l’incontro e vincerlo. I resistenti tentano di dissuaderli, poiché alla fine della partita non ci sarà più tempo per la fuga, ma ormai è diventata una questione d’onore per Colby e compagni, che riescono a convincere anche il riluttante Hatch.
La partita
Gli Alleati rientrano in campo e iniziano a giocare in maniera convinta e determinata, ricorrendo pure alla stessa durezza usata dai tedeschi nel primo tempo. Trascinati dall’entusiasmo degli spettatori francesi sugli spalti, riescono a portarsi prima sul 2-4 (grazie a Rey che realizza scartando anche il portiere), poi sul 3-4 (gol di Hayes su respinta del portiere), e si vedono annullare il gol del pari (di Hillson) per un presunto fuori gioco. A quel punto l’infortunato Fernandez (colpito in maniera durissima allo sterno durante il 1′ tempo) rientra in campo proteggendosi il petto con un braccio[3] e, su un cross di Brady, si esibisce in una spettacolare rovesciata che infiamma il pubblico e porta le squadre in parità sul 4-4. La bellezza del gesto tecnico entusiasma anche Von Steiner, che si alza ad applaudire sportivamente il gol, tra la silenziosa ma evidente disapprovazione degli altri ufficiali tedeschi in tribuna d’onore.
La conclusione
C’è ancora tempo per qualche schermaglia in campo e, all’ultimo minuto di gioco, un rigore totalmente inesistente viene assegnato ai tedeschi. Tra le proteste alleate, gli spettatori francesi intonano con fierezza la Marsigliese in segno di orgoglio e incoraggiamento. Il portiere Hatch e il capitano tedesco Baumann si trovano faccia a faccia e si fissano intensamente negli occhi per lunghi istanti. Hatch, fino a quel momento non impeccabile, vola a parare il rigore calciato dal semi-ipnotizzato Baumann. Lo stadio esulta e gli spettatori invadono il campo travolgendo le barriere intorno al terreno di gioco e superando le guardie armate. Nella confusione che si genera, i giocatori Alleati vengono portati via dalla folla e fuggono dagli ingressi principali. Il maggiore Von Steiner, dalla tribuna, osserva la scena con un’espressione di sportiva indulgenza, che fa da contraltare al disappunto dei gerarchi nazisti seduti poco distanti da lui.
Sport e propaganda del nazifascismo: non solo il calcio
L’uso propagandistico che i regimi totalitari destra fecero dello sport ha avuto non pochi esempi. Segno, questo, dell’intuizione che tali regimi ebbero circa le potenzialità in termini di suggestione collettiva che le imprese sportive potessero produrre. Praticamente qualsiasi sport rientrò nel mirino della propaganda fascista e nazista, l’importante appunto era la sua porta giornalistica. Per cui Mussolini, oltre a fregiarsi dei due mondiali di calcio che l’Italia vinse di fila nel 1934 e nel 1938, sfruttò non poco le imprese pugilistiche di Primo Carnera, il primo campione mondiale italiano dei massimi della storia del pugilato italiano. Hitler, invece, ebbe meno fortuna, alla luce degli eventi organizzati dalla stessa Germania nazista. I nazisti, interdetti gli ebrei dalla possibilità di partecipare, organizzarono un lunghissimo e meticoloso periodo di preparazione che si concluse con tre mesi massacranti per gli atleti nella Foresta Nera. Il lavoro diede i suoi frutti: i risultati per i nazisti furono strepitosi: per i tedeschi 36 medaglie d’oro, 12 in più degli Stati Uniti e primo posto nel medagliere. Terzi e quarti italiani e giapponesi davanti a francesi ed inglesi: i regimi nazi-fascisti battevano le democrazie su tutta la linea. Anche in virtù di quel trionfo i nazisti poterono apportare delle “prove” in supporto alle teorie sulla superiorità della razza ariana di Fichte e a quella del Superuomo di Nietzsche, abilmente manipolate e strumentalizzate da Hitler. In effetti ci fu un’eccezione che macchiò in parte quella grande affermazione nazista: si chiamava Jesse Owens. Un nero americano, considerato dai nazisti di razza inferiore, che dominò ben quattro gare di atletica tra cui i 100 metri piani e mandò su tutte le furie Hitler che, secondo alcune voci, fu costretto a fuggire dallo stadio per non dovergli stringere la mano dopo le vittorie. Tuttavia quell’imprevisto non scalfì la portata del trionfo nazista la cui celebrazione fu affidata a Leni Riefenstahl, la regista ufficiale del Terzo Reich e del Nuovo Ordine nazista fin dal 1933, che provvide a oscurare il più possibile Owens. Grazie a più di trecento ore di riprese e dopo un lavoro di tre anni, la Riefenstahl produsse il più grande omaggio della storia allo sport: Olympia. Il film esaltava con aloni misticheggianti la perfezione della razza ariana attraverso la sublimità e la bellezza del corpo e del gesto degli atleti, una bellezza antica che ritornava in vita grazie ai campioni del Reich. Nell’orbita della disonesta propaganda nazista s’iscrive anche la vicenda del pugile Johann Trollmann di origine sinti, che durante la sua carriera pugilistica verrà poi soprannominato anche Gibsy, “zingaro”, soprannome che si farà cucire sui pantaloncini con cui saliva sul ring.Vinse il campionato della Germania del sud e divenne membro della BC Heroes di Hannover, boxe club fondato nel 1922. Durante l’adolescenza vinse molti altri campionati regionali, ottenne il titolo di campione della Germania del nord, e partecipò a campionati per pugili amatoriali. Nel 1928 partecipò alle selezioni per le Olimpiadi di Amsterdam, da cui venne poi scartato perché, essendo sinti, non poteva rappresentare la Germania nei giochi olimpici. Dopo di ciò, Trollmann si unì alla più nota associazione sportiva dei lavoratori di Hannover, la BC Sparta Linden. I giornali lo diffamarono spesso per via delle sue origini, chiamandolo Gipsy, “zingaro”, ma anche criticandolo per il suo stile del tutto nuovo, quasi danzante.( fonte consultata : http://storiaepolitica.forumfree.it/)
Fonti Bibliografiche:
-Martin, Simon, Calcio e fascismo, Milano, Oscar Mondadori, 2006.
Shirer, William L., Storia del Terzo Reich, Milano, Fabbri Editori, 1978.
Roger Repplinger, Buttati giù zingaro. La storia di Johann Trollmann e Tull Harder, Upre Roma, 2013.
Mauro Garofalo, Alla fine di ogni cosa, Frassinelli, 2016.
Dario Fo, Razza di zingaro, Chiarelettere, 2016.
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https://etuttaunaltrastoria.com/wp-content/uploads/2017/10/Foto-in-evidenza-1.jpg1024768Francesco Clementehttps://etuttaunaltrastoria.com/wp-content/uploads/2017/10/logo-altra-storia.pngFrancesco Clemente2017-10-29 10:15:272025-01-12 19:04:59La vittoria e il sacrificio: il calcio eroico dei martiri sconosciuti
Quell’ inquietudine sottile della vacanza : “Il sorpasso” di Dino Risi
L’Italia del “miracolo economico “ fra voglia di emancipazione e autocompiacimento narcisistico
di Francesco Clemente
A mio padre
“ll sorpasso” è un film del 1962, diretto dal grande Dino Risi. Si tratta di un’opera cinematografica fra le più significative mai girate in Italia, poiché rappresenta uno dei ritratti più verosimili del costume sociale italiano all’epoca del “boom” economico che investì la penisola. Una galleria di personaggi su cui troneggia la strana coppia Gassman-Trintignant, che sciorina recitazione con la disinvoltura di un gelataio che confeziona gelati al momento. Un film da rivedere e rivedere, dove forse ogni fotogramma dice più di tante parole. Scritte, gridate e anche sussurrate.
Perché questo film
Anche i film, in un modo o nell’altro, ci attendono sulla soglia della porta della nostra maturità, più o meno presunta. Si affacciano nella nostra vita una prima volta e magari neanche ci sfiorano con la loro presenza. E noi a dire e a dirci: sì è un film, ma uno come un altro…due che si incontrano a ferragosto e vanno su e giù per l’Italia centrale…che vuoi che sia. Questo è stato il pensiero che ha accompagnato chi scrive questo articolo, per poi realizzare la portata di questo film, solo qualche anno prima che compisse i quarant’anni. Chi scrive, poi, ricorda come il proprio padre, cultore di cinema con trascorsi da corsista di operatore cinematografico a Roma proprio negli anni in cui il film fu girato, lo indicasse come una delle pellicole più importanti della storia del cinema italiano. Chiaramente, sosteneva questo fra lo scetticismo del figlio, all’ epoca troppo giovane per capire cosa nascondesse tutta quella normalità che il film narrava con tanta apparente ovvietà.Ognuno, per dirla con Conrad, ha la sua sottile “linea d’ombra”.
La storia
La vicenda è inizialmente ambientata a Roma, la mattina del Ferragosto 1962, in un momento in cui la città è quasi del tutto svuotata di persone. Bruno Cortona, interpretato da Vittorio Gassman, è un quarantaduenne aitante ma sfaticato e parolaio, amante della guida sportiva e delle belle donne, perennemente al volante di una Lancia Aurelia B24 convertibile, impegnato a vagare alla ricerca di un pacchetto di sigarette e di un telefono pubblico. Occasionalmente lo accoglie in casa Roberto Mariani, interpretato da Trintignant, studente di giurisprudenza rimasto in città per preparare gli esami. Dopo aver fatto i suoi comodi, Bruno chiede a Roberto di fargli compagnia: i due, sulla spinta dell’esuberanza e dell’invadenza di Bruno, intraprendono un viaggio in auto lungo la via Aurelia, a velocità sostenuta, che li porterà in direzione della Toscana, a Castiglioncello, raggiungendo mete occasionali sempre più distanti.
Durante il viaggio verso il nord e verso il mare, arriveranno anche a far visita ad alcuni parenti di Roberto, prima, e alla figlia e all’ex-moglie di Bruno, poi. Il giovane Roberto sarà più volte sul punto di abbandonare Bruno, ma sia il caso, sia una certa inconfessabile attrazione, mascherata da una certa arrendevolezza, terrà unita l’assortita coppia di amici occasionali, che significherà per Roberto anche un percorso di iniziazione alla vita. Per lui, infatti, è l’occasione per allontanarsi dai miti e dai condizionamenti adolescenziali e iniziare il ripensamento delle sue relazioni familiari, dell’amore e dei rapporti sociali, sino alla tragica conclusione che si materializza durante l’ennesimo sorpasso avventato da Bruno, da sempre spericolato guidatore dalle velleità sportive: l’auto si scontra con un camion e precipita in un burrone. Bruno si getta fuori dall’auto riuscendo così a salvarsi, mentre Roberto, invece, perde la vita. Quando gli agenti intervengono per l’incidente Bruno confesserà di non conoscere neppure il cognome del suo passeggero.
La versione francese, il caso americano, l’iniziale freddezza dell’accoglienza italiana, il definitivo successo
Il sorpasso fu realizzato anche in una versione francese, uscendo proprio in Francia col titolo Le Fanfaron, mentre negli Stati Uniti con il titolo The Easy Life. In America, poi il film divenne davvero un caso di costume al punto tale che Dennis Hopper, il regista del cult movie Easy Rider si è ispirato a Il sorpasso per scrivere il suo soggetto cinematografico. In Italia, invece, almeno all’inizio il film non fu accolto con un grande successo di critica. Lo stesso Dino Risi raccontò che alla prima erano presenti solo 50 persone, ma il successo di pubblico arrivò gradatamente grazie al passaparola degli spettatori che avevano assistito alla proiezione. Gli incassi successivi furono eccezionali, il film infatti costò una cifra superiore ai 300 milioni di lire e incassò in 3 anni più di un miliardo di lire. La consacrazione della critica arrivò solo in tempi successivi, dopo la metà degli anni ottanta. Il sorpasso fu un successo non solo italiano ma internazionale, tanto che in Argentina alcuni pensano davvero che la parola “sorpasso” significhi appunto “spaccone”.
Gli effetti del boom economico fra auto, ambizioni sociali, locali notturni, vacanze estive e forme d’intrattenimento
Il film di Dino Risi è l’occasione per avere sotto gli occhi in poche decine di minuti di proiezione uno spaccato fedelissimo non solo dell’Italia dei primi anni ’60, ma anche di ciò che il nostro paese sarebbe diventato sul piano delle criticità sociali e di costume. Insomma, Risi non si limita a descrivere la realtà italiana a lui contemporanea, ma azzarda una proiezione dei suoi sviluppi futuri. Un’opera davvero unica per la tragicità intrinseca che nasconde sotto le mentite spoglie della solita commedia all’ italiana. Uno spaccato della società ormai avviata verso il benessere massificato che si realizza attraverso una cura certosina della descrizione dia alcuni particolari significativi. Primo fra tutti le ambientazioni del divertimento dell’epoca, quelle balere che poi si sarebbero evolute in discoteche e che di fatto erano luoghi dove si esibivano i nuovi italiani medi. Non è un caso che nel film sfilino pezzi musicali notissimi all’epoca, ovvero Quando Quando Quando (Tony Renis / Alberto Testa) di Emilio Pericoli, St. Tropez Twist (Mario Cenci / Giuseppe Faiella) di Peppino Di Capri, Per un attimo (Paolo Lepore e Luigi Naddeo / Gino Mazzocchi) di Peppino Di Capri, Don’t Play That Song (You Lied) (Ahmet Ertegün / Betty Nelson) di Peppino Di Capri, Gianni (Nino P. Tassone / Giuseppe Cassia) di Miranda Martino, Vecchio frak (Domenico Modugno) di Domenico Modugno, Guarda come dondolo (Carlo Rossi / Edoardo Vianello) di Edoardo Vianello, Pinne fucile ed occhiali (Carlo Rossi / Edoardo Vianello) di Edoardo Vianello, brani musicali anche diversissimi fra loro ma di cui alcuni di loro certamente esprimevano il clima vacanziero, la spensieratezza dei momenti liberi, insomma tutto ciò che gli anni del boom economico sembravano promettere a quell’ Italia che ormai si metteva alle spalle le ristrettezza economiche della seconda guerra mondiale. Oltre alla motorizzazione di massa, il boom economico portò anche una diffusione massiccia degli elettrodomestici. Si pensi all’aumento delle vendite dei frigoriferi che passarono dai 500.000 del 1958 agli otre 2 milioni del 1963. Nel film di Risi, Bruno-Gassman prova addirittura ad approfittare di un incidente mortale acquistando frigoriferi trasportati nel camion coinvolto nel sinistro e afferma di lavorare nel campo dei frigoriferi. Inoltre,anche la villeggiatura, all’inizio degli anni ’60, diventò un fenomeno di massa, grazie alla diffusione proprio delle automobili e alla conquista delle ferie pagate. L’Italia diventa metà di turisti stranieri e nel film questa notazione compare puntualmente.
La metafora del viaggio di evasione: Bruno e Roberto simboli paradossali del passaggio dal vecchio al nuovo
La caratterizzazione dei personaggi di questo film e il modo in cui interagiscono rappresenta qualcosa di paradossale ad un primo sguardo. La logica vorrebbe che lo scapestrato fra i due protagonisti fosse il più giovane, ovvero Roberto-Trintignat, invece è Bruno-Gassman, ovvero il più grande, il quarantenne. Invece, Roberto rappresenta un giovane serioso e poco incline alla spensieratezza, mentre Bruno è l’eterno Peter Pan, sempre pronto a trasgredire. Fra i due, apparentemente lontanissimi per carattere e modi di fare, vi è un’intrigante complicità, filmicamente resa con l’espediente della voce interiore-fuori campo, che è il corrispondente del monologo interiore in ambito letterario. Questa complicità rappresenta l’inspiegabile attrazione che Roberto nutre per Bruno: ne condanna e ne critica gli atteggiamenti, ma ne è intimamente affascinato. Roberto rappresenta il giovane italiano legato a valori tradizionali piccolo-borghesi, centrati sul sacrificio che ripaga e la il merito che è sempre riconosciuto, sulle regole che si devono sempre rispettare; Bruno è invece è il prototipo della trasgressione incalzante, della spacconeria che dissacra la tradizione, che mette in soffitta anche la buona educazione per affermare se stesso, per dare sfogo agli istinti. Entrambi, sono, dunque, simboli: Roberto dell’Italia ancora anni ’50, tutta casa, chiesa e sacrificio; Bruno di quella appunto del boom economico, fatta di auto accattivanti da guidare, vacanze da vivere, ristoranti da frequentare, suggestioni erotiche da inseguire. Una certa interpretazione forse fin troppo apocalittica vorrebbe che entrambi rappresentano due identità nazionali, giunte a un punto cruciale della propria storia. La prima, rappresentata da Roberto è quella legata ai principi, ed è quella che purtroppo sarà sedotta e alla fine morirà; la seconda, rappresentata invece da Bruno è quella furbesca, individualista e amorale. Tutto il film, comunque, è incardinato sul viaggio d’evasione lungo quella via Aurelia che divenne il simbolo della spensieratezza italica nei primi anni ’60. Da quella strada, si deve partire per comprendere l’atmosfera del film.
La via Aurelia
Per avere un’idea chiara di cosa sia stato il film di Risi, si deve partire da una domanda: Che cosa è la via Aurelia? Semplicemente una via di collegamento fra Roma e Ventimiglia, oppure una condizione dell’anima? Si può affermare senza enfasi che la via Aurelia è la strada simbolo delle vacanze. Essa è l’idea stessa dell’evasione, condensa da sola il giorno di Ferragosto, la vacanza per antonomasia, il giorno in cui il mondo si deve fermare per vivere le vacanze. La via Aurelia è la strada che porta via da Roma, si tratta della Strada Statale numero 1, famosa per la sigla SS1. Esce da Roma e si dirige verso Fregene e Santa Marinella e poi si dirige verso nord-ovest in direzione Versilia, per giungere poi in Liguria e poi, infine alle porte della Francia. Per cui, il mondo che i protagonisti incontrano nel loro viaggio è quindi davvero uno spaccato trasversale di quella società romana che collettivamente si metteva in moto ogni domenica per celebrare il rito della festa, tra soste alle stazioni di servizio, lunghe code d’automobili e incidenti frontali. È abbastanza intuitiva la comprensione della scelta di Risi di ambientare il viaggio dei due protagonisti lungo questa fettuccia che porta via dal grigiore sordo di una metropoli svuotata verso le brezza dell’avventura alla portata di tutti.
L’Italia attraversata da Bruno e Roberto è sospesa fra passato e futuro, fra città e campagna. Nel film si mette in scena questo rapporto fra “cittadini” e “campagnoli”, ciò avviene precisamente nella scena del passaggio che i due amici concedono ad un anziano contadino che fa l’autostop. Una volta fatto salire, l’anziano è oggetto di derisione da parte di Bruno. Per non parlare, poi della festa a suon di moderno(allora) “twist” che i due incontrano in un’aia, scena che da sola esemplifica come ormai la società dell’intrattenimento abbia raggiunto il mondo rurale, conquistandolo definitivamente. Se, dunque, il ferragosto è inevitabilmente “la vacanza”, lo stare vuoti per forza, senza occupazioni quotidiane incombenti, allora lo spirito di questo giorno è ben sintetizzato dalla battuta di Bruno-Gassman rivolta al giovane Roberto-Trintignat: <<A Robè, lo sai qual è l’età più bella? È quella che uno c’ha giorno per giorno. Fino a quando schiatti, si capisce>>. Una filosofia di vita che si potrebbe tranquillamente accostare al Carpe diem oraziano e che invita tutti, pure i poveracci, a vivere quel giorno in completa libertà. Ma Aurelia è anche il nome del modello di auto che nel film “recita” insieme agli attori.
La Lancia Aurelia
Se il celebre film con Dustin Hoffman intitolato Il laureato vede come protagonista la mitica Alfa duetto decappottabile, inevitabilmente di colore rosso, Il sorpasso è la pellicola che consacra un’altra auto mitica, sempre italiana e sempre sportiva: la Lancia Aurelia B24. Un’auto che (l’analogia tra il nome della spider e la via consolare non può, anche questa volta, esser casuale) riflette un simbolismo pregnate. La macchina, infatti, era uscita dalle officine nel 1956 e rappresentava allora il prototipo di un’idea di eleganza e raffinatezza, ma ben presto si trasformò nell’ideale dell’automobile aggressiva, prepotente, truccata nel motore e negli allestimenti, tra cui il famosissimo clacson tritonale che accompagna gran parte delle sequenze filmiche in auto e che da solo rende la spacconeria di Bruno. A ciò si devono aggiungere alcune attenzioni che Risi riserva alla caratterizzazione dell’auto stessa, utilizzata nel film. La fiancata destra mostra ancora le lavorazioni di un’officina di carrozziere, le riparazioni non ancora riverniciate, le cicatrici che dovevano testimoniare le battaglie sostenute dall’auto e dal suo pilota (notare che manca anche uno dei due terminali di scarico della vettura). In definitiva, Dino Risi sceglie non casualmente una Lancia Aurelia, poiché essa rende proprio la corruzione di un’idea, quella fiducia nel miracolo economico che con gli anni andrà a finire in Italia, lasciando il posto a una società nella quale solo i cialtroni opportunisti, come appunto Bruno, e i loro pseudovalori morali diventeranno i soggetti protagonisti di un benessere sociale.
Le immagini e i contributi bibliografici cartacee utilizzati sono ricavati dalle fonti seguenti:
Andrea Giardina, Giovanni Sabbatucci,Vittorio Vidotto, Nuovi profili storici 3, volume 2, editori laterza, 2008, Roma-Bari;“Aurelia, la via simbolo delle vacanze” articolo di Caterina Soffici in “La Stampa”, quotidiano nazionale, numero di martedì 15 agosto 2017;
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https://etuttaunaltrastoria.com/wp-content/uploads/2017/10/Foto-2-10.jpg290500Francesco Clementehttps://etuttaunaltrastoria.com/wp-content/uploads/2017/10/logo-altra-storia.pngFrancesco Clemente2017-10-28 18:18:292017-10-29 22:16:59L’Italia che sognava il sorpasso: Dino Risi e il boom degli anni ’60
La classe smarrita fra la valanga del consumismo e la dimenticanza di sé
L’attualità di un film su un tema che appare inattuale: “La classe operaia va in paradiso” di Elio Petri
Di Francesco Clemente
“La classe operaia va in paradiso” è un film del 1971 diretto da Elio Petri, scritto in collaborazione col l’indimenticato e insuperato Ugo Pirro. Si tratta di una pellicola che, nonostante la freddezza di molta parte della sinistra italiana di quel periodo, inanellò molti premi fra cui il Grand Prix per il miglior film al Festival di Cannes nel 1972, il David di Donatello sempre nello stesso anno e due premi speciali per il sommo Gian Maria Volontè e la formidabile Mariangela Melato, interpreti di questo film particolare che per la prima volta, con velleità quasi documentaristiche sul piano della stesa ricostruzione degli ambienti, accende una luce sul mondo della fabbrica italiana a cavallo fra gli anni ’60 e gli anni ‘70 .
Nella storia del cinema italiano non sempre le polemiche suscitate da un film hanno assunto i connotati del fatto clamoroso. Certo, alla mente vengono immediatamente le denunce subite da Pasolini, solitamente con capi di imputazione riferiti al vilipendio alla religione. Gli esempi, poi, potrebbero essere altri e annoverarli non sarebbe difficile. Nel caso de La classe operaia va in paradiso siamo di fronte ad un caso diverso, per certi aspetti più stimolante rispetto alla chiassosità dei “casi” giudiziari pasoliniani. Il motivo è presto detto e probabilmente trova la sua spiegazione nella levatura intellettuale della stessa sceneggiatura. Alla sua uscita, presente in sala, il regista Jean-Marie Straub prese il microfono in pubblico e dichiarò che tutte le copie dell’opera di Petri dovevano essere bruciate seduta stante. Il film raccolse in definitiva un’accoglienza piuttosto algida da parte della sinistra italiana, sia nelle vesti di classe dirigente che di quella militante nel campo della critica cinematografica. A suscitare malcontento fu la descrizione dei sindacalisti come sostanzialmente doppiogiochisti, mentre gli studenti di sinistra rappresentati come degli imbonitori ideologizzati. Insomma, la sinistra istituzionale ne uscirebbe praticamente a pezzi.
Per chi non avesse visto il film è giusto che si accenni brevemente alla vicenda narrata. Ludovico Massa, detto Lulù, è un operaio trentenne con due famiglie da mantenere, e con già 15 anni di lavoro presso una fabbrica, due intossicazioni da vernice e un’ulcera. Tifoso del Milan, irriducibile stakanovista, quindi convinto sostenitore del lavoro a cottimo, grazie al quale riesce a garantirsi un tenore di vita piccolo-borghese, Lulù è coccolato dai padroni, che lo indicano come modello per stabilire i ritmi ottimali di produzione, suscitando così l’odio dei colleghi operai per il suo spudorato servilismo. La sua vita continua in questa totale alienazione, che lo porta a ignorare gli slogan di protesta urlati e scritti dagli studenti fuori dai cancelli, finché un giorno ha un incidente sul lavoro e perde un dito. Così, improvvisamente, Lulù si sveglia dal sonno dell’alienazione e prende coscienza dell’incubo della sua misera vita, schierandosi contro il ricatto del lavoro a cottimo, aderendo alle istanze radicali degli studenti e di alcuni operai della fabbrica, in contrapposizione alle posizioni più concilianti dei sindacati. Il resto della vicenda vale la pena vederlo, per cui non è conveniente svelarlo. Con buona pace dei detrattori di questo film, ci si sente in dovere di valorizzarne il rigore della sceneggiatura( basti pensare che è stato girato nella fabbrica Ascensori Falconi di Novara, all’epoca anche oggetto di una interrogazione parlamentare da parte del comunista Lucio Libertini), l’attualità dei problemi che solleva, nonché la forza della denuncia della deriva dell’antagonismo di classe. Gli esperti di cinema, i critici e gli storici degni di questo appellativo conoscono la caratura intellettuale dello sceneggiatore del film, quel Sergio Piro che collaborò anche a quell’altro capolavoro intitolato Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Per cui è dal suo contributo aureo che si intende partire nell’analisi qui proposta. Basta aprire le pagine di qualsiasi edizione dei Manoscritti economico-filosofici di Karl Marx per accorgersi che in bocca ai protagonisti di questo film, dallo stesso Volontè, fino al mitico “Militina”, interpretato dall’immenso Salvo Randone, si sono proprio le forme di alienazione subite dall’operario nel processo di produzione capitalistica. Nel dialogo fra Lulù(Volontè) e il Militina( Randone) che si tiene al manicomio si affrontano le prime tre forme di questo processo alienante. In quelle battute fulminee, saggio eccezionale di cosa significhi recitare sul serio, oltre che scrivere con credibilità per la fiction, si passano in rassegna appunto l’ alienazione come sottrazione del prodotto ai produttori, l’alienazione come dall’attività lavorativa stessa,l’alienazione come impoverimento della personalità individuale. La prima delle tre si spiega con la produzione di un oggetto( il capitale, appunto) che in realtà non gli appartiene perché, molto semplicemente non riesce a goderne, per cui tale oggetto finisce per costituirsi come potenza dominatrice nei suoi confronti. La seconda, invece, riguarda il lavoro costrittivo, il lavoro forzato, che comporta il suo progressivo deterioramento professionale. La terza, dunque, è una diretta conseguenza della seconda, poiché si aliena dalla sua stessa essenza umana, in quanto il lavoro ripetitivo e meccanico non gli appartiene.
Ma il film, almeno secondo il parere di chi scrive, pone delle questioni molto serie circa la quarta forma di alienazione concepita da Marx, quella riferita ai rapporti sociali, sulla quale vale la pena soffermarsi. Questa quarta forma di alienazione riguarda i rapporti fra classe capitalista e classe operaia, facendo emergere l’inevitabile allontanamento reciproco fra queste due classi, dovuto appunto ai differenti rapporti di produzione. In questo caso, l’alienazione riguarda anche gli stessi operai, divisi fra quelli appunto “cottimisti” e quelli non “cottimisti”, e poi fra quelli “occupati” e quelli “disoccupati”, una condizione che nel film di Petri è ben descritta proprio quando il protagonista Lulù Massa è licenziato dall’azienda per via della sua “conversione” al radicalismo della lotta politica in aperta polemica con i sindacati, all’indomani del suo fatidico incidente che ne cambierà la mentalità. La scarsa solidarietà fra operai, la manovra astuta del sindacato (che sfrutta il licenziamento di Lulù per riaccreditarsi presso quella stessa classe operaria che iniziava a prendere le distanze dalle forme istituzionale di concertazione in termini contrattuali), sono al centro della pellicola di Petri e non possono che interrogarci sulla possibilità contemporanea di una riorganizzazione delle classi subalterne. Certo, il film presenta alcune forzature, alcune soluzioni a tinte forti, come ad esempio il ricorso all’orwelliana litania che dai megafoni dell’azienda dove si svolgono le vicende per rendere efficacemente la strategia di “indottrinamento” aziendale: « Lavoratori, buongiorno. La direzione aziendale vi augura buon lavoro. Nel vostro interesse, trattate la macchina che vi è stata affidata con amore. Badate alla sua manutenzione. Le misure di sicurezza suggerite dall’azienda garantiscono la vostra incolumità. La vostra salute dipende dal vostro rapporto con la macchina. Rispettate le sue esigenze, e non dimenticate che macchina più attenzione uguale produzione. Buon lavoro. » Ma, al netto della valutazioni critiche, emerge una profezia terribile circa lo sgretolamento di certe comunità di lavoro, che non sono più compatte nella rivendicazione dei loro diritti.
Tempo fa, una voce non molto ascoltata della sinistra italiana, Mario Tronti, ripropose il tema della “polverizzazione” della classe, ovvero il fenomeno appunto dello smembramento di quel blocco storico che avrebbe dovuto compattarsi attorno ai suoi bisogni, quindi ai suoi diritti in direzione di una strategia più ampia. Un tema che, di fatto, oggi è di enorme portata, soprattutto se si pensa alla frammentazione che ha subito la classe dei lavoratori nelle aziende( e non), alla precarizzazione diffusa che di fatto ha minato l’ipotesi di una strategia comune di lotta da parte dei lavoratori. Che dire, poi, della denuncia che Petri lancia circa il processo di imborghesimento della classe operaria, sedotta da modelli di vita borghesi, capaci di farle ingoiare le politiche cottimiste e tayloriste pur di soddisfare qualche piccolo sogno proibito? A proposito, ci limitiamo a evidenziare quanto questa premura del regista trovi un riscontro pieno e inequivocabile nell’analisi che Marcuse, decenni fa, aveva compiuto in relazione ai processi di fagocitazione innescati dalla società dei consumi ai danni degli stessi gruppi sociali intenzionati all’antagonismo culturale. Alla luce di ciò, pare davvero profetica l’intuizione di Petri di raffigurare Lulù Massa come anche un accanito tifoso, simbolo di quella che sarebbe stato il proletariato dei giorni nostri, sottopagato e nello stesso tempo inguaribilmente soggiogato dai suoi feticci d’intrattenimento. Che dire, poi, di un’altra faccenda, ovvero del fatto che ancora oggi alcune fabbriche, alcune non proprio piccole, tipo quelle metalmeccaniche e siderurgiche, non appaiono molto distanti da quella descritta nel film, soprattutto in rapporto alle condizioni igienico-sanitarie e della stessa pericolosità delle mansioni da svolgere(Ilva)? Insomma, in attesa di un nuovo, vero, autentico Karl Marx del terzo millennio , chi si affaccia alla prospettiva della ripresa della lotta al sistema economico si può confortare con le analisi del pur eccellente Luciano Canfora autore de La schiavitù del capitale, saggio nel quale si parte dalla considerazione che come l’Idra, il mostro mitologico le cui teste, mozzate da Ercole, avevano il potere di rinascere raddoppiandosi, il capitalismo, un tempo solo occidentale oggi planetario, ricompare sulla scena del mondo riproponendo nuove e più sofisticate forme di schiavitù. Una riflessione, quella di Canfora, che si rietine in consonanza con le emergenti esigenze di ripensamento contemporaneo dei rapporti e dei mezzi di produzione e che quindi si può tranquillamente inserire nel solco degli spunti dialettici che il film di Petri anni fa ebbe modo di sollevare. Anzi, proprio confrontandolo con questi nuovi contributi saggistici, si è indotti a rivalutarlo a dispetto della miopia più o meno involontaria che all’epoca della sua uscita subì da parte di non poca intellighenzia militante.
https://etuttaunaltrastoria.com/wp-content/uploads/2017/10/Foto-1-8.jpg660469Francesco Clementehttps://etuttaunaltrastoria.com/wp-content/uploads/2017/10/logo-altra-storia.pngFrancesco Clemente2017-10-27 15:16:022025-01-12 19:05:00Alla ricerca della classe perduta
Roma non come Gomorra, ma forse anche qualcosa in più: La denuncia di Sollima del declino della città eterna
di Francesco Clemente
“Suburra” è una pellicola del 2015 diretta dal regista Stefano Sollima, nonché tratta dall’omonimo romanzo di Carlo Bonini e Giancarlo De Cataldo. Il film, scritto da Stefano Rulli e Sandro Petraglia, ha come protagonisti Pierfrancesco Favino, Claudio Amendola, Elio Germano, Alessandro Borghi, Greta Scarano e Giulia Elettra Gorietti. Il romanzo ed il film prendono il titolo dall’omonimo quartiere dell’Antica Roma, la cui parte bassa era particolarmente nota per i misfatti che vi si perpetravano.
Vale la pena soffermarsi su questo film italiano che è comparso nelle sale in un momento particolarmente delicato per la storia della terza repubblica. All’epoca, appena due anni e mezzo fa, vennero mediaticamente a galla le magagne delle vicende politico-mafiose relative all’inchiesta denominata “Mondo di mezzo”, che attraverso i noti criminali Buzzi e Carminati, gettava una luce sinistra sulla commistione fra malavita e politica, fra ambienti delinquenziali e cariche istituzionali, nel quadro di un governo locale, quello della città di Roma appunto, che ha mostrato un volto assolutamente desolante e ammutolente. Prima che il film uscisse, l’opinione pubblica si era già divisa sulla gestione amministrativa dell’allora sindaco Ignazio Marino a Roma, impegnato per non pochi giorni in un estenuante ping-pong di scambi di pareri piuttosto vivaci con l’allora premier Matteo Renzi e altri intoccabili del Partito democratico. Qualche irriducibile sofista potrebbe farci notare gli esiti con cui l’inchiesta citata si sia conclusa in termini che non sono proprio quelli del pieno riconoscimento di un fenomeno mafioso a Roma. Motivo per cui, non ci sarebbe neanche motivo di porre troppa enfasi su un film come “Suburra”.
In realtà, non le cose non stanno proprio così perché ciò che Stefano Sollima mette in scena è probabilmente quello che da moltissimo tempo non pochi sapevano e che invece anche un certo apparato mediatico ha provveduto opportunamente ad occultare nel corso degli anni. Nel film attraverso il personaggio interpretato da Amendola, vi è un inequivocabile riferimento ai fatti storici relativi alla Banda della Magliana, per cui proprio la figura dell’attempato criminale di nome “Samurai”( Amendola, appunto), spiega simbolicamente ma in maniera assai credibile tutta la matassa più o meno intuibile dei fatti tristissimi e inconfessabili che si sono tradotti in tangenti, omicidi eccellenti (alcuni commissionati dalla stessa politica), traffici d’armi, gestione illecita degli appalti. Sotto questo profilo, si comprende la portata narrativa di un personaggio come Filippo Malgradi, interpretato da Pierfrancesco Favino(sorprendente per essenzialità d’interpretazione) nei panni di parlamentare corrotto invischiato nella criminalità proprio attraverso “Samurai”, suo vecchio amico e compagno di militanza politica durante gli anni della strategia della tensione. Al centro dei rapporti fra i due protagonisti, infatti, vi è un progetto di legge sulla riqualificazione delle periferie (del quale Malgradi è promotore) fino alla zona di Ostia, in una cornice di malaffare con fiumi di denaro che bocche fameliche attendono di ingoiare.
Fin qui, in breve, il nocciolo fondamentale della vicenda filmica. Sul piano dell’estetica cinematografica certamente balza subito agli occhi la forte somiglianza con “Romanzo Criminale”, pellicola di qualche anno prima dove è presente sempre Favino nei panni di “Libano”, soprattutto se si tiene conto degli effetti cromatici fortemente chiaroscurali di volti spigolosi e ambientazioni lugubri, ma anche delle inquadrature e di alcuni piani-sequenza. Scelte, queste, legittimamente discutibili, nonché sottoponibili a critiche, ma che rivelano una cifra stilistica del regista capace di personalizzare la vicenda filmicamente trasposta. Allo stesso modo, si potrebbe tranquillamente pensare ad un confronto con “Gomorra”, film di Garrone tratto dal noto reportage romanzato di Roberto Saviano. Proprio su questo secondo aspetto, è doverosa una serie di riflessioni di carattere sociale e politico.
Mentre “Gomorra” non ha sconvolto per la novità dei fatti narrati, proprio per gli arcinoti problemi napoletani relativi al fenomeno della camorra, quanto per la crudezza di certe modalità criminali non proprio conosciute al grande pubblico, “Suburra” di fatto colpisce, forse anche di più di “Romanzo criminale”, per aver scoperto quel velo pesantissimo di silenzio sul malaffare romano, sulle dinamiche particolari, sulle sue modalità di azione, praticamente sconosciute a buona parte dell’opinione pubblica italiana. In parole povere, del fenomeno camorristico a Napoli era praticamente impossibile dubitarne, ma della particolare connotazione malavitosa del fenomeno delinquenziale a Roma era quasi del tutto impossibile averne u quadro così credibile e realistico. Non è un caso che la già citata inchiesta romana, nota come “Mondo di mezzo”, sia scoppiata in un periodo in cui a Roma in pubblica piazza si celebrarono (con tanto di elicottero commemorativo e parenti in corteo) i funerali di un pezzo grosso del clan dei Casamonica, fra lo stupore del mondo intero, mentre la città affogava fra disservizi e sempre più marginalità a livello internazionale. Che dire poi, dei fatti successivi a quelli della gestione di Marino, ovvero dell’inchiesta che coinvolse quel Marra, influente funzionario del comune di Roma, che tanto aveva fatto parlare di sé e che di fatto ha offuscato l’immagine immacolata del nuovo sindaco di Roma, quella Virginia Raggi, cui i romani si sono affidati nella speranza di cancellare il marchio dell’infamia del malaffare? Senza, ripercorre troppo analiticamente questa vicenda, ci si limita a ricordarne la portata politica e istituzionale, ovvero la prova provata di una situazione incancrenita nei più intimi gangli dell’amministrazione romana, una peste inestirpabile che dimostrato di sopravvivere a tutte le stagioni politiche, facendosi beffa di qualsiasi proposito di cambiamento. Siamo, in ultim’analisi, di fronte all’inveramento del monito di Pasolini, allorquando egli denunciò il processo di speculazione edilizia, che prendeva di mira le periferie romane e non solo, che già qualche decennio dopo il secondo conflitto mondiale rivelava una certa pericolosa vitalità. Sappiamo poi, quale esito tragico ebbero quelle invettive pasoliniane e in quale silenzio assordante siano andate a finire.
Il film di Sollima, dunque, lo si deve interpretare come un documento, neanche non tanto romanzato, che testimonia il tunnel di cornico malessere in cui la capitale d’Italia ha dimostrato di entrare, senza peraltro dare dei veri segnali di ripresa. Un’opera che sembra porre un sigillo su una “sindrome romana”, ormai venuta definitivamente a galla e che stride fortemente con l’immagine di città spensierata e ridente dei ruggenti anni ’80, dove al limite la denuncia si limitava al ritratto di una certa macchiettistica “indolenza” che si poteva scorgere in alcuni fugaci sequenze dei film di Carlo Verdone. Proprio questa crudezza di fatti, o meglio di misfatti, dove la politica si è mischiata al banditismo ibrido massonico-mafioso( come è stata appunto la Banda della Magliana), dove la sovrapposizione di lecito e illecito è stata legittimata dalla “ratio” superiore del compromesso fra le parti coinvolte, ha fatto piombare nello sconforto non solo la popolazione comune, ma anche i mitici testimonial della Città eterna, ovvero quei romani eccellenti come Gigi Proietti, lo stesso Carlo Verdone, Antonello Venditti che hanno sempre ostentato con orgoglio la loro appartenenza anagrafica. Insomma, un giorno ci si sveglia e ci accorge che Roma si è imbruttita, fra lo stupore di tutti noi, magari ostinatamente legati ad un’immagine che non c’è più da tempo ma che interpella inesorabilmente tutta la società italiana nelle sue responsabilità soprattutto morali. Fra le tante scene del film di Sollima che si potrebbero scegliere per esprimere questo concetto, forse una su tutte s’impone: quella che ritrae papa Ratzinger nell’atto delle dimissioni. Un’immagine esemplare della resa in termini morali, tanto eclatante quanto sconfortante, il segno di un’eclisse epocale, la dismissione completa di tutto.
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