Liberarsi del controllo: individui e comunità nell’epoca di Twitter

L’eresia e l’ “idiozia” all’epoca dei big data: La psicopolitica secondo Byung-Chul Han

 

“Psicopolitica” è un saggio del filosofo coreano Byung-Chul Han edito dall’editore Nottetempo di Roma nel 2016. Docente di Filosofia e Studi culturali a Berlino, l’autore   medita sul panorama sociale contemporaneo, cercando di tracciarne il nuovo volto politico. Al centro della sua riflessione c’è l’impatto particolare delle nuove modalità di comunicazione che si sviluppano nella cornice della strategia di monitoraggio continuo a cui siamo sottoposti, attraverso la condivisione continua, alla narrazione di se stessi prodotta dal “post” o dal “twitt” insistente, espedienti efficaci delle nuove finalità di controllo che avviene nella polarità concettuale di “psiche” e “politica”.

Con la semplicità comunicativa tipica dei saggi che non amano sdottoreggiare, il coreano   Byung-Chul Han, in meno di centoventi pagine di libro, dimostra di aver “digerito” la grande letteratura filosofica occidentale consacrata alla critica sociale di otto-novecento, primi fra tutti Marx e Foucault. Un omaggio non celebrativo, bensì vivacemente dialettico, all’impostazione investigativa dei “maestri del sospetto”, dove il confronto teorico (in particolare con Foucault) serve all’autore per pungolare tutti noi su un interrogativo ormai ineludibile.  Nell’epoca dell’infinita possibilità di connessione e di informazione è davvero così compatibile con la nostra libertà? La domanda si lega alla trattazione del cambio di paradigma del potere che intende manipolare le masse, perché con le nuove modalità di comunicazione si assiste al definitivo passaggio dall’idea di imporre il silenzio, attraverso la censura di stato, all’invito insistente a narrare di se stessi, di “pubblicizzare” la nostra vita privata. Praticamente, nell’epoca dei social network si realizzerebbe il controllo sociale più raffinato mai conosciuto dalla civiltà occidentale, per il semplice fatto che “il controllato”, “il sorvegliato” (ovvero ogni singola persona) è complice compiaciuto del “sorvegliante” (in altre parole, il sistema). Alla luce di ciò, si comprende la provocazione elegante di questo filosofo coreano impastato di critica sociale: il recupero fondamentale dell’eresia e dell’idiozia, nella loro accezione originaria. L’effetto finale è quello di una denuncia non urlata, ma non per questo non incisiva negli esiti analitici raggiunti dal filosofo coreano, per cui  l’eresia è, infatti, la scelta libera, la rottura del dogma ufficiale, la possibilità della rottura per esercitare lo sviluppo dello spirito e dell’intelligenza; l’ “idiozia” è l’essere ignari in modo autentico, la sprovvedutezza vera di fronte alle situazioni, ovvero il possesso di una purezza interiore che apre le concrete possibilità di parlare una lunga nuova, capace di sovvertire il linguaggio cristallizzato dell’esistente. Insomma, siamo alle prese con un saggio agile e dalla prosa misurata che invita all’esercizio critico di ciò che tutti i poteri che si sono avvicendati nella storia hanno tentato di gestire in maniera indiscussa: la libertà individuale di ognuno. Una riflessione, tuttavia, che suggerisce tacitamente anche la difficoltà per l’uomo contemporaneo di mettere in campo le strategie necessarie per far fronte alla “dolce” sudditanza   cui invitano le nuove tecnologie di comunicazione, per la semplice constatazione che il condizionamento esercitato dal sistema è  spesso davvero debordante,nonchè a volte poco contenibile. Un libro che sembra proporsi come la sintesi felice dell’insegnamento di   Baumann e del nostro Luciano Floridi,  per di più impreziosito dalla sobrietà stilistica della sapienza orientale.

Verità e menzogna secondo Donato Carrisi

La cappa fosca della giustizia-spettacolo: “La ragazza nella nebbia” di Donato Carrisi

Di Francesco Clemente

 

“La ragazza nella nebbia” è un film del 2017 scritto e diretto da Donato Carrisi, basato sull’omonimo romanzo dello stesso Carrisi. Film giallo, affronta con crudo realismo la vicenda della scomparsa di un’adolescente nel profondo Nord dell’italia, nel contesto di un paesino di montagna. Al centro della vicenda anche un ispettore di polizia, (interpretato da Tony Servillo) e uno psichiatra(interpretato da  Jean Reno) in una storia di ordinario sciacallaggio mediatico.

 

Al di là dei giudizi prettamente riferiti all’ estetica cinematografica, La ragazza nella nebbia di Donato Carrisi è un film che ci interroga direttamente sulla questione della giustizia-spettacolo. Insomma, lo scrittore pugliese, alla sua prima esperienza da regista di un film tratto dall’ omonimo romanzo, di cui è lui stesso autore, regala allo spettatore una vicenda che ha nell’ intreccio degli avvenimenti narrati il suo punto forte. Non vi è, inoltre, la pretesa di non pochi autori di aver espresso un’assoluta originalità (qualora fosse poi possibile raggiungerla) in termini di trama, ovvero di vicenda vera e propria. Anzi, come il film stabilisce per bocca di uno dei suoi protagonisti che la prima regola di un grande romanziere è copiare, per cui Carrisi “procede ad attingere a piene mani da molto del cinema che l’ha preceduto e in particolare da alcuni autori di culto: da David Lynch (innumerevoli i riferimenti a Twin Peaks) a David Fincher (quello di L’amore bugiardo ma anche quello di Seven), passando per il Giuseppe Tornatore di Una pura formalità e Tomas Alfredson, cui lo accomuna la difficoltà di portare sul grande schermo un noir di successo”(www.mymovies.it). Ma il film, anche sotto questo profilo, puramente narrativo ha il merito di conferire ai fatti raccontati una connotazione nazionale, se non proprio regionale, restituita nelle inflessioni dialettali e nelle abitudini tipiche della provincia di montagna che lo rende efficace in un’ottica di analisi del costume. Ed è così che la storia della scomparsa, nella sperduta cittadina di Avechot, della sedicenne Anna Lou, diventa la cornice dove si sviluppano le indagini dello scaltrito investigatore Vogel, per creare con modi spregiudicati ampia eco mediatica intorno ai casi di cui si occupa.

Il resto della vicenda prende le mosse dalle indagini e dai sospetti che si concentrano attorno alla figura di un professore della scuola locale, Loris Martini, la cui vita privata è di fatto sconvolta da quanto accaduto sul quale ricadono i principali sospetti. Il finale è prevedibilmente non banale, con un effetto spiazzante sul piano della ricostruzione del rebus, nonché dell’espediente narrativo del particolare montaggio che è stato utilizzato. Un film, quello di Carrisi, che ha il merito di pungolare i gusti nazionali del pubblico amante del cinema proponendo uno dei pochi thriller di marca tutta italiana, sul piano del contesto narrativo, attualmente in circolazione, tentando così di rompere l’arcinota e discutibile affezione al filone dei cinepanettoni.

AnnaMaria Franzoni sorridente il giorno dopo la scarcerazione si intrattiene con i cronisti al ritorno dalla messa presso la casa di famiglia a Monteacuto Vallese, nei pressi di Bologna.
GIORGIO BENVENUTI/ANSA

Assodato ciò, nella consapevolezza anche dell’attenzione che si deve riservare alle notazioni critiche che al film sono state avanzate sul piano della tecnica di ripresa, nonché sullo stesso adattamento in termini di sceneggiatura, il film di Carrisi denuncia impietosamente, seppur con un certo distacco emotivo, i meccanismi della “macchina del fango” che si attiva nel momento in cui fatti di cronaca nera sono quasi impossibili da risolvere con gli strumenti dell’investigazione giudiziaria, se vogliamo con la stessa ragione umana, ma le pressioni sociali e politiche sono tali che si deve, per forza di cose, dare in pasto al pubblico il mostro di turno. Nella cinematografia italiana ci sono illustri precedenti che hanno affrontato il tema, per cui è sufficiente ricordare “Girolimoni, il mostro di Roma” con un grandissimo Nino Manfredi, oppure il più ideologico “Sbatti il mostro in prima pagina” di Marco Bellocchio con un indimenticabile Gian Maria Volontè, film che all’epoca misero a fuoco il fenomeno della strumentalizzazione della comunicazione. La ragazza nella nebbia dimostra di fare un passo in avanti rispetto anche a questi film perché svela proprio il grottesco “copione” che la macchina del fango mette in opera, allorquando si deve dare in pasto all’opinione pubblica il responsabile di un omicidio. In altre parole, il film svela i retroscena, gli accordi nascosti allo sguardo dello sventurato spettatore di storie di sangue, il linguaggio trito e ritrito dei giornalisti chiamati a raccontare e a speculare su queste vicende miserevoli.

Il pensiero va, dunque, a tutte quelle trasmissioni televisive che costruiscono vagonate di  fiction a puntate su omicidi a sfondo privato, dove gli ospiti s’improvvisano psicologi, psichiatri, investigatori, moralizzatori, fustigatori dei costumi, e infine, cosa più grave, giudici. Su quest’ultima notazione vale la pena soffermarsi, perché su questo terreno si è giocato e si gioca il destino delle persone che sono incappate in queste vicende. Il punto è, nella sua semplicità, decisivo: L’informazione è a volte davvero utile per capire fatti criminosi così intricati? Oppure essa, spesso, scade nella costruzione di ipotesi suggestive perché la finalità è quella di appassionare un pubblico? In definitiva, la questione è: che cosa ne è della verità in una situazione come quella descritta nel film di Carrisi, dove l’investigatore gioca a fare la star, insieme agli occasionali comprimari di quello che è un vero e proprio teatrino della giustizia da propinare all’ora di pranzo e, per rafforzare il messaggio, a quella di cena. Insomma, ragione, verità e dimensione critica vanno praticamente a frasi benedire in una dimensione sociale nella quale il cervello è praticamente annebbiato da un bombardamento continuo che non i fatti, molto probabilmente non ha nulla a che fare.

Da Nord a Sud abbiamo assistito negli ultimi due decenni a omicidi a sfondo privato, consumati nel silenzio e nella noia delle nostre provincie, dal delitto di Cogne, a quello di Novi Ligure, fino al caso di Chiara Scazzi in quel di Avetrana. Tutti crimini che avrebbero meritato forse solo un dignitoso silenzio, dopo aver dato al pubblico solo ed esclusivamente notizie vere ed accertate, in buona sostanza solo dopo aver svolto un credibile servizio di informazione. Invece, abbiamo assistito allo sfilare spesso ridicolo di persone a volte praticamente estranee alle vicende narrate, ma tutte puntuali nell’avanzare ipotesi, nel moralizzare, nel giudicare. Alla luce di ciò, La ragazza nella nebbia non può che interpellarci sul piano delle responsabilità pubbliche dell’informazione di massa, che a questo punto non può forse solo ricadere sempre sul potere che gestisce. Certo, è assolutamente pacifico che sia il potere il principale responsabile di operazioni di giustizia-spettacolo, come gli esempi che si sono precedentemente ricordati. Ma siamo sicuri che forse anche il pubblico non debba darsi una mossa quando è investito da notizie del genere? In sostanza, può sempre il pubblico subire e sorbirsi tutto ciò che è così spiattellato con arrogante superficialità da sistema dell’informazione, senza avvertire una responsabilità verso se stesso, in termini morali e di intelligenza? In sostanza-parafrasando una battuta pregnante del film- ammettere che non serve a nulla “essere il diavolo” se non puoi dirlo a nessuno- non dimostra che il pubblico rappresenti ormai da decenni, l’unica vera cosa che conta sul serio e che quindi, tutto deve avere la sua ragione fondamentale in questa chiave? Nella pellicola diretta da Carrisi giganteggiano Tony Servillo e Jean Reno, lasciati saggiamente liberi dal registi di dispensare la loro arte come dovrebbe fare qualsiasi allenatore al cospetto di Pelè e Maradona, due mostri sacri rispettivamente nei panni dell’investigatore e dello psichiatra protagonisti della vicenda, due maestri di una classe cristallina capaci di recitare senza copione, di interpretare un finale dove la verità emerge ed è inconfessabile per il semplice motivo che si svela nel silenzio. Forse è questo che il pubblico dovrebbe fare, per evitare di cadere nella perversione della “macchina del fango”: fare silenzio e non seguire più certe trasmissioni.

 

Le immagini sono ricavate dalle fonti seguenti:

https://www.taxidrivers.it

http://www.mymovies.it

http://tg24.sky.it

https://images.gqitalia.it

Quello che non ti aspetti

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Le correnti dell’infosfera

Lo sguardo fiero di “Sophia” verso i vortici dell’infosfera: le trasformazioni della quarta rivoluzione secondo Luciano Floridi

Di Francesco Clemente

“La quarta rivoluzione”, è un saggio edito da Raffaello Cortina nel 2017 del filosofo italiano Luciano Floridi, professore ordinario di Filosofia ed Etica dell’informazione all’Università di Oxford. Con questo libro Floridi ha vinto il Walter J.Ong Award for Career Archievement in Scholarship 2016. Si tratta di uno studio sulle dinamiche particolari innescate da una dimensione che prende il nome di “infosfera”, ovvero la dimensione creata dalle relazioni comunicative, frutto delle nuove tecnologie. Una riflessione, quella di Floridi, davvero ampio respiro, che si concentra sulla ormai sempre più labile distinzione fra “on-line” e “off-line” nelle relazioni fra umani mediate dalla tecnologia e che ha il grande pregio di suscitare interrogativi di un certo spessore non solo scientifico ma anche sociale.

Al termine della lettura di questo saggio  si ha la netta sensazione che la riflessione filosofica possa diventare argomento “pubblico”, di coinvolgimento autentico fra uomini pensanti. Merito dell’autore che oltre ai contenuti estremamente nuovi si è avvalso di una prosa assai calibrata, efficace nel trasmettere pensieri piuttosto densi. Un Luciano Floridi in gran forma da un punto di vista intellettuale, che dimostra di tesaurizzare la lezione del mondo intellettuale anglo-americano nell’utilizzo di semplici analogie per rendere la portata di argomenti vastissimi, un ulteriore elemento distintivo di questo saggio,  che spicca in un panorama intellettuale nostrano ancora segnato da un’ insuperabile polarità davanti a cui si trova l’occasionale lettore di saggistica: o l’ultraspecialismo accademico o la fuorviante banalizzazione.  In questa snella e dinamica cornice stilistica si collocano i contenuto del libro, primo fra tutti la necessità di guardare agli effetti incalzanti delle nuove tecnologie dell’informazione della comunicazione con l’autonomia di pensiero tipico dell’esercizio della domanda filosofica. Floridi, dunque, ammonisce circa la necessità di ripensare l’ “infosfera”, senza farsene travolgere e in questo senso dimostra di far emergere l’anima classica della sua formazione, quella di matrice greca, quella legata a “Sophia”, all’indagine che parte dall’uomo che non si confonde fra le cose, senza sposare le mode momentanee di non pochi pensatori che sposano acriticamente le novità proposte dall’epoca corrente. Siano di fronte, per fortuna, ad un atteggiamento intellettuale in linea con la tradizione filosofica che non subisce i fenomeni della comunicazione, nel senso che ne vuole ricavare una “teoria”, ovvero uno sguardo che sia in grado di staccarsi dalla fiumana degli annunci salvifici anche di tipo intellettuale. Così, con la speditezza espositiva di un treno giapponese,  nella prima parte del libro Floridi snocciola davanti agli occhi del lettore temi come il tempo, lo spazio, l’identità personale, domande eterne della filosofia, ma questa volta letti sotto l’angolazione delle novità antropologiche inaugurate dalla quarta rivoluzione(quella delle nuove tecnologie appunto)rendendo in modo convincente l’enorme “prateria” di problematiche che tale angolazione squarcia per l’uomo del terzo millennio. Quello di Floridi sarà pure un libro divulgativo, come sottolinea lo stesso autore, ma è tuttavia un testo “apripista”, perché gli spunti di riflessione che suggerisce sono davvero numerosi e che emergono con una certa naturalezza nella mente del lettore attento. Così, non stupisce che il saggio faccia richiamare alla mente i nodi concettuali che sono alla base di correnti storiche della filosofia europea come lo storicismo, la fenomenologia husserliana, la filosofia dell’esistenza, il personalismo, non ultima la stessa filosofia politica del novecento, oltre naturalmente all’epistemologia. Il tutto però, non sul piano della citazione storica, ma su quello appunto delle problematiche sollevate dall’ infosfera: si parte dal quotidiano panorama di queste tecnologie, per poi affrontare appunto il cambiamento prodotto sul tempo, sullo spazio, sul rapporto con noi stessi e con il mondo circostante, sulla dimensione comunitaria e le forme di legittimazione pubblica oltre alla fonte stessa del potere sovrano.  A ciò si aggiungono i capitoli, davvero suggestivi, sulla dimensione della privacy e sulla politica, dove i cambiamenti tutti ancora da esplorare e da valutare in un’ottica di ormai definitiva accettazione dell’esaurimento delle forme tradizionali sia di dimensione privata che di quella pubblica. Su quest’ultima, è doveroso soffermarsi su quest’ultimo aspetto, per le modalità con cui è affrontato e per le implicazioni che presenta. Con la felice espressione di “apoptosi politica” Floridi  si riferisce ad  un processo di  processo di autodistruzione programmata in termini cellulari che rende bene ciò che a livello epocale sta vivendo la società contemporanea in termini di forme organizzative tradizionali, quali ad esempio l’entità giuridica comune per eccellenza: lo stato.
  A riguardo, ci sarebbe da mettere in cassaforte queste pagine quando tracciano il declino della funzione di questo “Dio in terra” fatto di leggi e procedure, fino al punto da osservare che l’attuale sistema ha sperimentato con esisti lusinghieri per i mercati,  la sua assenza di fatto, come nel caso del Belgio in Europa qualche anno fa. Per cui, seguendo un’impostazione investigativa definibile come una sorta di ricerca dei trascendentali dell’infosfera, la ricerca dei suoi elementi costitutivi, si sviluppa un discorso che illumina il lettore sui nuovi rapporti di potere, sulla delocalizzazione, sull’idea stessa di democrazia, sui suoi connotati tradizionali, affiancando a pieno titolo, ma con una prospettiva certamente differente, il Michel Onfray attualmente impegnato sul fronte, ormai classico, del tramonto dell’occidente. Filosofi diversi, nazionalità diverse, pensieri diversi, ma, come si sa, l’infosfera accomuna un po’ tutti.

 

Le immagini sono ricavate dai seguenti siti:

http://www.raffaellocortina.it

http://blog.mondodigitale.org

http://www.radio3.rai.it

http://www.dirittodicritica.com

 

Il gioco d’azzardo della Guerra fredda: un film del 1983 per riflettere sulla bomba atomica

Una partita a scacchi che poteva costarci cara: La Guerra fredda di “Wargames”

di Francesco Clemente

“Wargames” è un film statunitense del 1983 del regista  John Badham, con musiche di  Arthur B. Rubinstein e gli attori  Matthew Broderick, Dabney Coleman, John Wood, Ally Sheedy, Barry Corbin, Juanin Clay, Kent Williams, Dennis Lipscomb, Joe Dorsey. Fu presentato  fuori concorso al 36º Festival di Cannes, suscitando un vivo interesse circa i rischi dei sistemi informatici preposti al controllo dei sistemi di difesa missilistici a testata atomica, proponendo temi e argomenti tipici dei primi anni ottanta caratterizzati dalla corsa agli armamenti, dallo stallo degli accordi SALT e dal dispiegamento degli euromissili, denunciando, infine, la possibilità di un’autodistruzione di massa.  

Per chi, ormai, ha varcato la soglia dei quarant’anni è abbastanza facile ritrovare nel ripostiglio dei ricordi di questo film cult degli anni ’80. All’epoca iniziavano a diffondersi i primi personal computer per cui chi ha memoria sa che in famiglia si accendevano le dispute su quale fosse il migliore fra quei “giocattoli” informatici che stavano aprendo un nuovo universo nella vita di ognuno. A parte il mitico Vic 20, moltissimi per non dire tutti di quella generazione ricordano il mirabolante Commodore 64, con quel sistema di trasmissione dei dati che passava attraverso un registratore magnetico esterno all’hardware di quella scatola magica che ha fatto sognare milioni di adolescenti.  Questo film di Badham, di fatto, rappresentò un implicito omaggio a questi gingilli della Commodore, ma fu anche un elogio all’intelligenza non riconosciuta di quegli adolescenti che si annoiavano a scuola, nascondendo dei talenti straordinari che famiglia e società non riuscivano proprio a vedere. Sì, perché la storia di questo film è quella del giovane David Lightman, appassionato di informatica, abile e promettente hacker che vuole introdursi nel computer di una nota casa di videogiochi, la Protovision, che sta per lanciare una collana di nuovi prodotti. Nel tentativo di connettersi a tutti i computer dello stesso stato in cui ha sede l’azienda, ovvero la California, il ragazzo riesce invece a raggiungere un supercomputer del NORAD studiato per rispondere ad un attacco missilistico: lo WOPR (War Operation Plan Response). Involontariamente si scatena un putiferio, perché questo calcolatore, ubicato nella base fortezza di comando NORAD, valuta azioni e contromosse ad un eventuale attacco russo basandosi sull’esecuzione di numerosi giochi strategici: una volta letto l’elenco di tali giochi, David si convince di aver raggiunto la Protovision ed inizia una partita a Guerra Termonucleare Globale contro lo WOPR, partita nella quale assume il ruolo dei sovietici. Dopo pochi minuti David deve abbandonare la connessione, ma il super-computer ha già avvertito gli stati maggiori dell’esercito segnalando un attacco nucleare imminente, che portano lo stato della difesa (DEFCON) degli Stati Uniti d’America sempre più verso la guerra. Ci si limita a questa breve sintesi della trama, senza svelarne il finale perché sarebbe un peccato per chi volesse gustarsi il finale avvincente e autoironico. Un film che alla fine stempera il crescendo della tensione in un  lieto fine abbastanza prevedibile, senza tuttavia rinunciare ad un suo spessore di fondo. Dunque, vale la pena soffermarvisi,  anche perchè  all’epoca esso apparve a qualcuno come l’ennesimo tentativo sensazionalistico per denunciare i pericoli della guerra fredda, per di più con una certa ruffianeria che strizzava l’occhio alle abilità non riconosciute degli adolescenti irrequieti. Il motivo è presto detto: non tutti sanno e forse non tutti ricordano che nel 1983, lo stesso anno di uscita del film, il mondo andò molto vicino allo scoppio di una guerra nucleare. A sventarla fu un ufficiale russo che non si fece prendere dal panico in occasione di un errore del sistema missilistico del suo paese.

I riferimenti alla cronaca dell’epoca

Chi è stato Stanislav Petrov? Molto semplicemente, l’uomo che  ha salvato il mondo dalla terza guerra mondiale, senza avere un adeguato riconoscimento per ciò che è stato in grado di fare. Il fatto risale al 26 settembre del 1983 durante la Guerra Fredda tra gli Stati Uniti e l’Urss. All’epoca era un tenente colonnello dell’esercito sovietico e  quella notte si trovava all’interno del bunker Serpukhov-15, situato sul confine occidentale dell’Urss, per monitorare i cieli russi e lanciare l’allarme in caso di attacchi nucleari americani. Il bunker era dotato di uno dei fiori all’occhiello della tecnologia militare sovietica: il Krokus, un sistema informatico avanzatissimo che permetteva di monitorare le attività missilistiche americane di tutto il mondo. Insomma qualora gli Usa avessero deciso di lanciare qualunque arma distruttiva, i sovietici li avrebbero immediatamente sgamati e soprattutto sarebbero stati in grado di passare al contro-attacco. Ma proprio quella sera la spia del Krokus si accese prevenendo l’arrivo di un missile nucleare appena scagliato dalla base militare del Montana. I radar intercettori erano sbagliati, nonostante i tecnici  fossero convinti del contrario. La verità è che non era vero che gli Stati Uniti avevano lanciato decine di missili termonucleari contro l’Unione Sovietica; lui non seguì la procedura, non avvertì il Cremlino che avrebbe avuto meno di quindici minuti per decidere di reagire, facendo partire bombe atomiche dirette verso l’America e l’Europa. In quei pochi minuti che seguirono l’allarme dato a mezzanotte e quindici minuti, Petrov salvò il pianeta dall’olocausto nucleare. I suoi superiori, quando poi si chiarì che si era trattato di un errore del sistema, decisero di non premiarlo. Il colonnello, anzi, ricevette un richiamo per non aver seguito la procedura standard e la sua storia è rimasta segreta fino al crollo dell’Unione Sovietica. Ma anche dopo, in Russia non si è quasi mai parlato di Petrov. Il colonnello ha ricevuto qualche riconoscimento all’estero, ma nulla in patria. Alla fine,  l’uomo che ha salvato il mondo è morto come è vissuto: nell’anonimato, senza riconoscimenti o quasi, in un misero appartamento di una cittadina satellite di Mosca. Per mesi, anzi, nessuno ne ha saputo nulla e la notizia è trapelata solo ora perché qualcuno l’ha cercato nell’ anniversario di quel 26 settembre 1983.

 L’atomica, la guerra fredda  e il pericolo attuale alle soglie del 2018

Wargames è un film che ci interroga su più livelli di discussione. In primo luogo, ci sbatte in faccia l’ovvietà della distruttività delle armi nucleari. Un dato, se vogliamo banale ma neanche troppo  a pensarci bene, visto che da qualche hanno certi dittatori asiatici giocano a minacciare un conflitto atomico con gli Stati Uniti, che dal canto loro non si fanno saltare la mosca al naso. Per cui, rivedere questo film degli anni ’80 forse farebbe bene a chi, fra uno spot pubblicitario e l’altro, non si rende minimamente conto di cosa possa comportare un pericolo del genere, confidando forse eccessivamente nella “distanza” delle immagini riportare dai media, nella tacita convinzione che le guerre sono sempre lontane e, soprattutto, “altrove”. Se la Guerra fredda fra Stati Uniti e Unione sovietica deve il suo nome al fatto che “calda”  non lo è mai stata, in quanto conflitto geopolitico giocato sullo scacchiere del mondo con strategie di finanziamento a governi compiacenti, alleanze militari, sgarbi diplomatici, e soprattutto con una competizione economico-militare, è altrettanto vero che essa è stata in alcuni momenti storici sul punto di scoppiare all’insaputa del mondo intero, come appunto la vicenda di  Petrov ha avuto modo di dimostrare. In secondo luogo, è bene sottolineare il fatto che questo film pose in primo piano il ruolo dei sistemi di controllo “intelligente” e artificiale nella gestione di ambiti delicatissimi come quello militare, denunciando implicitamente l’eccessiva fiducia umana risposta in tali sistemi. Sicché, sempre in relazione alla vicenda di Petrov del 1983, non si può eludere un’altra domanda: il fattore umano, ormai dato per subordinato nei confronti dell’intelligenza artificiale, è ancora determinate per la soluzione di questioni cruciali oppure si può mettere in soffitta in questo senso? Insomma: è giusto che i sistemi artificiali abbiano carta bianca in decisioni di cui ne va del destino dell’intera umanità? “Can che abbaia non morde”, è l’espressione che  si suol dire quando si allude alle scaramucce fra potenti, oppure di un potente all’indirizzo dei malcapitati. Alla fin fine, qualcuno direbbe, quella guerra è sempre rimasta “fredda”. 

Tuttavia, all ’indomani dello scoppio delle primissime bombe nucleari in Giappone nel 1945 e della prima bomba H, come si può pensare che debba essere sempre così? Non è che forse ci siamo fin troppo cullati a quel copione internazionale della competizione fra americani e sovietici, al punto da pensare che l’atomica forse non esiste più e faccia parte di una fiction creata ad arte? Ale soglie del 2018, tuttavia, una considerazione ironica si può fare, tutta a vantaggio di questo bel film del 1983, nel quale John Lennon, se non fosse morto 3 anni prima, avrebbe dovuto avere la parte di uno scienziato-filosofo ormai eremita nei confronti del mondo: la realtà oggi, forse è peggiore dello scenario tracciato dal film, perché mentre nella finzione la guerra termonucleare poteva scoppiare per un errore tecnico, nella realtà può scoppiare per la volontà perfettamente cosciente dei governati. E questa volta, non sarebbe solo una partita a scacchi, bensì qualcosa ben più grave.

 

La vittoria e il sacrificio: il calcio eroico dei martiri sconosciuti

La favola di John Huston in realtà non ebbe un lieto fine: “Fuga per la vittoria “ e la “partita della morte”

di Francesco Clemente

“Fuga per la vittoria” è un film di John Huston del 1981. Ispiratosi liberamente a fatti realmente accaduti nel corso della seconda guerra mondiale, la pellicola è una vera chicca per gli amanti del cinema a sfondo sportivo. Fra i protagonisti, infatti, ci sono fra i più grandi giocatori di tutti i tempi, fra cui il più grande: Pelè. Nel cast anche il piccolo grande giocatore argentino Ardiles, che passò il testimone al grandissimo Maradona nel calcio argentino della fine degli anni ’70. Fra i divi del cinema compaiono Sylvester Stallone e Micheal Kane, entrambi  in grande spolvero in questa vicenda realmente accaduta, ma conclusasi in modo assai diverso dai fatti accaduti nella realtà. Il film, a seconda del paese di proiezione, ha subitgo una censura più o meno “severa”: in Germania Ovest è stato vietato ai minori di 6 anni; in Norvegia, Finlandia, e nei Paesi Bassi ai minori di 12; in Svezia ai minori di 15. In Australia, Singapore, e negli Stati Uniti d’America è stato valutato con l’acronimo PG, vale a dire che la visione del film è consentita ai bambini con la presenza di un adulto.

Epica e Sport

Il XX secolo, fra le infinite cose che ha insegnato ha stabilito che lo sport può diventare epica. Insomma, il secolo appena trascorso ci ha detto anche questo: un incontro di pugilato, una corsa di velocità, non ultima una  partita di calcio possono diventare argomento da raccontare davanti al camino per incantare gli ascoltatori. Si arriva ad un punto in cui, il diretto destro o il dribbling diventano un momento estatico, pura magia. La stessa cosa si può asserire circa il film di John Huston Fuga per la vittoria, se si tiene conto della tecnica con cui il regista americano è riuscito a montare una cosa difficilissima: una partita di calcio nella quale si doveva far spiccare, fra le tante azioni di gioco,il gesto irripetibile, quello che ci fa balzare dalla sedia e ti lascia senza fiato. Come quella rovesciata di Pelè che sembra incidersi nel cielo all’altezza del sole come un marchio fiammeggiante, un segno che gli dei lasciano ai comuni mortali per ricordare loro che esistono davvero. Uno spettacolo nello spettacolo. Qualcosa che per noi italiani fa comprendere perché per anni sulle bustine delle figurine Panini era impressa quel gesto tecnico incredibile, che sfida la gravita: la rovesciata, appunto. Perché come ebbe anche a dire Pasolini, il calcio ma lo sport in genere può diventare un’espressione artistica, addirittura un’immagine in cui un’intera epoca è capace di rispecchiarsi. Il film, è liberamente ispirato alla famosa “partita della morte” tenutasi a Kiev il 9 agosto 1942 tra una mista di calciatori di Dynamo e Lokomotiv e una squadra composta da ufficiali dell’aviazione tedesca Luftwaffe, ed è da quei fatti che si deve partire per inquadrare l’interpretazione che il regista ne ebbe a dare.

La vicenda storica

Per ricostruire i fatti della partita poco conosciuta, ma realmente disputatasi, riportiamo quanto ricostruisce Filippo Marcianò in un suo articolo a riguardo:

Tutto iniziò con l’invasione tedesca dell’Unione Sovietica nel giugno 1941. Il 22 giugno 1941, giorno in cui la squadra di calcio della Dinamo Kiev doveva inaugurare il nuovo Stadio della Repubblica, l’odierno Olimpiiyskiy, la città venne bombardata e in settembre le truppe della Wehrmacht occuparono la capitale ucraina. A questo punto entra in scena Iosif Ivanovič Kordik, un Ceco della Moravia, nato nell’Impero Austro-Ungarico, che aveva combattuto la Prima Guerra Mondiale per gli Asburgo; ferito in combattimento, era stato costretto a rifugiarsi a Kiev, dove era rimasto per il resto della sua vita. Qui si trovò a dirigere l’importante panificio cittadino per cui lavorava. Kordik era un appassionato di sport: si offrì di assumere Nikolai Trusevich, portiere della Dinamo Kiev, nel suo panificio. Il portiere aveva lavorato per vent’anni come ingegnere panificatore, ma dovette accettare un posto come inserviente, con la mansione di spazzare il cortile della fabbrica: le leggi naziste gli impedivano, essendo un nemico del Reich, di tornare a esercitare la sua vecchia professione. Kordik voleva circondarsi di figure che avessero avuto un certo prestigio sportivo e fornire ai propri dipendenti, attraverso lo sport, una valvola di sfogo perché producessero di più e lavorassero meglio. Fu così che Kordik chiese a Trusevich di andare in cerca dei suoi vecchi compagni, per formare una squadra di calcio del panificio: i giocatori assunti avrebbero ottenuto un posto per dormire, qualcosa da mangiare e una piccola protezione dalle angherie del Reich. Così il portiere riuscì ad allestire la squadra nella primavera del 1942, radunando sia giocatori della «vecchia» Dinamo Kiev che della Lokomotyv Kiev, la seconda squadra della capitale ucraina. Nel frattempo Kiev cercava di resistere all’occupazione tedesca: organizzazioni clandestine tentavano di mantenere alta la speranza degli abitanti della città e, in alcuni casi, ne organizzavano la fuga verso i territori ancora sotto il controllo dei Sovietici (inizialmente, molti Ucraini avevano accolto i Tedeschi come liberatori, credendo ingenuamente che la nuova situazione sarebbe stata favorevole anche per loro; si sarebbero ricreduti presto!). I Tedeschi pensarono di piegare lo spirito fiero degli Ucraini affidandosi alla propaganda e al calcio, organizzando un vero e proprio torneo. La stagione calcistica avrebbe avuto il suo calcio d’inizio il 7 giugno 1942 e avrebbe visto la partecipazione di sei squadre: quella di Kordik, quattro formate da truppe tedesche, ungheresi e rumene, e la Ruch (ucraina). La squadra di Kordik, battezzata FC Start, venne subito iscritta al campionato. Ne facevano parte Nikolai Trusevich, Mikhail Sviridovskiy, Nikolai Korotkikh, Aleksey Klimenko, Fedor Tyutchev, Mikhail Putistin, Ivan Kuzmenko, Makar Goncharenko della Dinamo Kiev, e Vladimir Balakin, Vasiliy Sukharev, Mikhail Melnik della Lokomotyv Kiev. Fu nominato capitano Trusevich, il portiere, noto per la sua agilità e per il suo stile di parata spettacolare. Ad affiancarlo nelle decisioni era Mikhail Putistin, veterano della squadra che vinse l’argento nel Campionato Sovietico del 1936. Mikhail Sviridovskiy, colonna della Dinamo di dieci anni prima, divenne l’allenatore della Start: tornò a indossare gli scarpini, posizionandosi in difesa insieme a Fedor Tyutchev ed al veloce Aleksey Klimenko, terzino minuto, ma arcigno. A centrocampo si attestò Nikolai Korotkikh, personaggio calcistico di second’ordine; però l’attacco della Start era formato da Mikhail Melnik affiancato da Ivan Kuzmenko, che vantava una buona presenza fisica e un tiro potente e preciso. Makar Goncharenko, basso e compatto, ma allo stesso tempo veloce e talentuoso, possedeva visione di gioco e classe, oltre all’abilità di servire i compagni in maniera precisa e di sfruttare ogni spiraglio di porta che offrisse la possibilità di segnare. Goncharenko narrò che Putistin e Trusevich trovarono in un magazzino una divisa con cui disputare il campionato, di colore rosso.

«Non abbiamo armi» disse Trusevich «ma possiamo combattere per la vittoria in campo. Indosseremo questo colore, il colore della nostra bandiera: i fascisti devono imparare che questo colore non si piegherà». Trusevich trovò per se stesso una maglia nera con finiture rosse, da utilizzare come divisa da portiere. Nonostante i massacranti turni di lavoro al panificio, la scarsa alimentazione e la precaria condizione fisica, il 7 giugno la Start iniziò il proprio campionato giocando allo Stadio della Repubblica contro la Ruch, una squadra appoggiata dal movimento nazionalista ucraino anti-sovietico e filo-tedesco. Risultato: 7-2 per la Start. Siccome la cosa fece un po’ troppo rumore, i Tedeschi ordinarono di far giocare le altre partite in un impianto più piccolo, lo stadio Zenit (attuale stadio Start).Lo Zenit fu inaugurato con una vittoria 6-2 sulla squadra ungherese, seguita pochi giorni dopo da un perentorio 11-0 ai danni della squadra rumena. Le vittorie della Start iniziarono a significare molto per la popolazione di Kiev: per molti furono un’ispirazione a resistere, uno sprone a tenere alto il morale, un appiglio per non lasciarsi schiacciare dai nazisti.Il 17 luglio la Start incontrò per la prima volta una squadra tedesca, la PGS, affondandola sotto il peso di un pesante 6-0, mentre un’altra squadra ungherese, l’MGS Wal, perse 5-1 due giorni più tardi. La rivincita dell’incontro con l’MGS Wal, organizzata dai nazisti per piegare fisicamente i giocatori e costringerli alla sconfitta, finì 3-2: la Start stava diventando un simbolo della resistenza di Kiev.I comandi militari decisero quindi di mandare a giocare a Kiev il Flakelf, la più forte squadra militare tedesca di stanza in Ucraina, formata da militari della Luftwaffe e considerata invincibile. Il risultato del 6 agosto fu un’altra volta una larga vittoria della Start: il Flakelf fu sconfitto 5-1, proprio nei giorni in cui Stalin proclamava che l’Unione Sovietica non avrebbe fatto un solo passo indietro. In sette partire, 43 goal fatti e solo 8 subiti!L’ultima occasione per piegare la Kiev calcistica sarebbe stata il 9 agosto: rinforzando la squadra con alcuni tra i migliori calciatori dell’esercito tedesco impiegati sul fronte ucraino, i nazisti organizzarono la rivincita. La partita venne annunciata con una grande campagna pubblicitaria, manifesti vennero affissi su tutta la città ed i giornali pubblicarono articoli che elogiavano la forza del Flakelf. Prima della partita un arbitro tedesco fece il suo ingresso nello spogliatoio della Start, intimando ai giocatori: «Quando arriverete a metà campo, ricordatevi di gridare con tutto il fiato che avete in gola, Heil Hitler». Dopo il saluto dei Tedeschi, però, i giocatori della Start abbassarono la testa per un attimo e fecero il saluto che era di costume nello sport sovietico: «Fitzcult Hurà!», «Viva la cultura fisica». (Tra l’altro, Hurà era anche il grido di combattimento dei soldati dell’Armata Rossa quando andavano all’assalto, e molti Tedeschi lì presenti lo avevano già sentito bene in battaglia).Le gradinate dello stadio erano piene di soldati della Wehrmacht in uniforme: giubba in panno verde, calzoni infilati negli stivali, aquila sul taschino destro, elmetto con le caratteristiche sporgenze a secchio di carbone, cinturone con la tracolla, contenitore a tubo della maschera antigas, le granate dal manico di legno. E armi in quantità: comprese un bel po’ di mitragliatrici Mg, le micidiali «seghe di Hitler» dalla canna bucherellata.

In un piccolo settore vi erano Ucraini, vecchi, donne e bambini. In un pomeriggio dove il «caldo spaccava anche i cocomeri», come ha raccontato Valentina Goncharenko, allora tredicenne, le squadre si presentarono in campo alle cinque. I Tedeschi erano ben pasciuti, ben vestiti, impomatati e con undici riserve a disposizione; di fronte avevano i macilenti Ucraini, con braghe cascanti, traballanti sulle gambe ossute, malnutriti e senza nessuna riserva. E con l’arbitro tedesco, pure! I Tedeschi ci diedero dentro da subito e senza mezzi termini. Picchiavano, insultavano, provocavano. Dalle gradinate, le Mg sparavano contro le gambe dei giocatori ucraini. I falli dei nazisti venivano regolarmente ignorati dal direttore di gara, quelli degli Ucraini erano segnalati tutti. Un’azione dalla dubbia regolarità, un palese fuorigioco e un calcio in testa al portiere Trusevich in una mischia sottoporta che lo fece rimanere alcuni minuti a terra stordito, permisero ai Tedeschi di passare in vantaggio. Ma in meno di venti minuti i giocatori della Start segnarono tre volte. Il primo goal lo fece Kuzmenko da trenta metri di distanza, su punizione: la sfera si insaccò, bassa, alla destra del portiere tedesco. Poi, una doppietta del bomber Goncharenko (con il primo goal frutto di una serpentina in area e il secondo con una mezza rovesciata) portò la propria squadra sul 3-1. Durante l’intervallo fece il suo ingresso negli spogliatoi un ufficiale delle SS: «Siamo veramente impressionati dalla vostra abilità calcistica e abbiamo ammirato il vostro gioco del primo tempo – disse l’ufficiale, in un russo impeccabile –. Ora però dovete capire che non potete sperare di vincere. Prima di tornare in campo, prendetevi un minuto per pensare alle conseguenze». Nel secondo tempo, dopo uno sbandamento iniziale che permise ai Tedeschi di portarsi sul 3-3, lo Start decollò e segnò altre due volte: 5-3. Il difensore Klimenko poco prima del fischio finale dribblò la difesa del Flakelf e il loro portiere, osservò, sprezzante, la tribuna degli alti ufficiali tedeschi e invece di buttare la palla in rete spazzò il pallone il più lontano possibile, verso il centro del campo: uno sfregio bello e buono. Al termine della partita, cominciò a farsi strada nella mente degli Ucraini l’idea che la loro vita non valesse più nulla e che, con il fischio finale, si era sancita anche la fine delle loro vite. Racconta Goncharenko che «ci trovammo in un silenzio cupo, tetro dello stadio vuoto, soli in mezzo al campo, capimmo di aver firmato con i nostri goal anche la nostra condanna a morte… Ci attardavamo sul campo, come se stando lì fossimo al sicuro, salvi. La paura cominciò a impadronirsi di noi, avevamo fatto semplicemente quello che ritenevamo giusto, non per essere eroi, ma solo come Ucraini che avevano una dignità ed un onore di uomini e di calciatori… Adesso eravamo spaventati per quello che ci aspettava… Avevamo di nuovo la stessa paura dell’inizio partita, che avevamo scacciato con quell’urlo di Hurà, talmente tanta paura da avere persino paura di mostrarla…». La settimana dopo gli Ucraini trovarono comunque il tempo di dare la rivincita alla Ruch, umiliandola per 8-0. E fu la fine. Alcune settimane più tardi iniziarono gli arresti. Il primo ad essere portato via fu Nikolai Korotkikh. Korotkikh era un ufficiale in servizio della polizia segreta: fu arrestato il 6 settembre, e morì dopo venti giorni di tortura nel quartier generale della Gestapo in Korolenka Vulycja. Ma ci sono molte versioni di come si determinarono gli eventi di morte sui giocatori ucraini. Anche gli altri giocatori subirono le torture della Gestapo, prima di essere deportati nel campo di concentramento di Syrec, poco fuori Kiev, amministrato dal feroce Paul von Radomsky, Obersturmbahnführer delle SS. Goncharenko e Sviridovskiy riuscirono a fuggire insieme: il primo, molti anni dopo, raccontò la propria versione della storia della Partita della Morte, e fu l’unico che ne parlò. Tre giocatori persero la vita a Syrec: Kuzmenko, Klimenko e Trusevich, tutti e tre nella stessa occasione. La loro morte viene raccontata da un sedicente testimone oculare, ma il racconto stesso conserva i tratti della leggenda e ci presenta tre morti quasi stereotipiche, che enfatizzano i tratti salienti del carattere dei tre giocatori. La mattina del 24 febbraio 1943 Radomsky ordinò una rappresaglia per un tentato attacco incendiario al campo. I prigionieri vennero disposti in fila: una persona ogni tre veniva colpita alla testa col calcio del fucile e freddata con una pallottola alla nuca. Ivan Kuzmenko, il gigante dell’attacco della Start, fu colpito in mezzo alle scapole dal calcio del fucile, vacillò e, benché stremato dalla fame e dalla fatica, rimase in piedi. Resistette a diversi colpi, prima di accasciarsi al suolo e ricevere il proprio proiettile. Aleksey Klimenko, il minuto difensore che aveva umiliato il Flakelf sul finire della partita, crollò immediatamente a terra e fu finito da una pallottola dietro l’orecchio. Nikolai Trusevich, il portiere, sentì i passi delle SS fermarsi alle sue spalle. Si preparò a ricevere il colpo, ma finì ugualmente per terra. Si rialzò, con tutta l’agilità che l’aveva reso il miglior portiere dell’Unione Sovietica e, mentre la guardia apriva il fuoco, urlò: «Krasny sport ne umriot!», «Lo sport rosso non morirà mai». Morì nella sua divisa da gioco nera e rossa, l’unico indumento caldo che possedeva, colpito da una raffica di mitra. È difficile ricostruire la vera storia della Partita della Morte, anche perché i giocatori vennero considerati dall’opinione sovietica dei disertori che, invece di combattere in difesa di Stalingrado e Mosca, si erano imboscati e si erano intrattenuti con l’invasore in partite di calcio. I giocatori che sopravvissero alla guerra non furono perseguitati dal regime, che preferì sfruttare la vicenda a fini di propaganda, colorando, esagerando e distorcendo a proprio piacimento la storia di Trusevich e compagni. La prima testimonianza della partita è un articolo pubblicato il 16 novembre 1943 dall’organo ufficiale del governo sovietico, «Izvestiya», che parlava solo dell’esecuzione di alcuni sportivi da parte dei Tedeschi. Il giornalista Petro Severov nel 1958 raccontò la vicenda in modo dettagliato su un giornale di Kiev, in un articolo intitolato L’ultimo duello. L’anno dopo la trattazione si allungò e diventò un libro, firmato dallo stesso Severov assieme a Naun Khalemsky. Vennero successivamente le memorie di Makar Goncharenko, il superstite, e tre film di successo (due russi ed uno americano, a cui abbiamo accennato all’inizio). Nel 1994, nel suo libro Calcio e potere, Simon Kuper raccontò di un viaggio in Ucraina alla sede della Dinamo Kiev da lui fatto due anni prima, dall’esito sorprendente: «L’addetto stampa mi raccontò la storia della partita, e poi mi chiese di non scriverla: perché non era vera. La partita era un mito ideato dopo la guerra dal Partito Comunista locale. Senza dubbio una partita c’era stata, visto che un sopravvissuto [probabilmente Makar Goncharenko], di ottantasei anni, viveva a Kiev, ma aveva oculatamente scelto di starsene zitto». E nel 2004 Karel Berkhoff pubblicò per la Harvard University Press Harvest of Despair: Life and Death in Ukraine Under Nazi Rule, che ha permesso infine di ricostruire la verità. Nel 1981 lo Stadio Zenit di Kiev, che aveva visto il massacro, venne ribattezzato Stadio Start. Di fronte ad esso, una grande scultura di Ivan Horovyj (1971) mostra quattro figure maschili in calzoni corti, alte tre metri e con pettinature anni Quaranta, che vanno a braccetto con lo sguardo perso nell’orizzonte. Ha scritto Stefan Olyjnyk: «Per il nostro presente / sono morti nella lotta / la vostra gloria non si spegnerà, / eroi, atleti senza paura». Un fatto analogo si verificò anche in Italia, e precisamente a Sarnano, un paesino delle Marche, quando un sergente nazista appassionato di calcio scoprì che in paese viveva Mario Maurelli, un arbitro noto anche in Germania. Bussò alla sua porta e lo invitò a trovare undici ragazzi italiani per una sfida contro i nazisti – ma undici giovani di Sarnano, nel 1944, significava undici partigiani. Maurelli non poteva sottrarsi, come racconta nel documentario di Umberto Nigri La leggenda di Sarnano. Nella squadra italiana giocava Libero Lucarini. Proprio Lucarini, quel 1° aprile 1944, scivolando di proposito, fece pareggiare la squadra tedesca, dopo che il centravanti Grattini – in modo improvvido – aveva portato in vantaggio gli Italiani. A differenza degli Ucraini, i partigiani italiani preferirono infatti pareggiare: fatto che, alla fine, permise loro di scappare tutti in montagna… proprio come nel film Fuga per la vittoria…”( http://www.storico.org/seconda_guerra_mondiale/partita_morte.html)

Trama del film

(tratto da www.wikipedia.it)

L’idea

Nel corso della seconda guerra mondiale, nel 1942, un ufficiale tedesco in visita ad un campo di concentramento per prigionieri alleati, il maggiore Von Steiner, in passato calciatore che fece parte anche della Nazionale, riconosce tra gli ufficiali britannici prigionieri un suo ex collega, il capitano John Colb cui propone di l’idea di organizzare un incontro di calcio tra una selezione di calciatori Alleati e la squadra sportiva di una vicina base tedesca. All’inizio i compagni di prigionia di Colby si dichiarano contrari all’iniziativa, sicuri che il comando britannico non approverebbe: essi sono infatti consci che la propaganda tedesca potrebbe sfruttare l’evento per caricarlo di significati extra-sportivi. Ma Colby è stimolato dal confronto, anche perché tra le truppe britanniche può vantare giocatori di livello come il soldato inglese Brady, lo scozzese Hayes e il coloured originario di Trinidad Luis Fernandez, oltre a quelli disponibili tra i prigionieri alleati, il belga Filieu, l’olandese van Beck e il norvegese Hilsson. Un prigioniero canadese, Hatch, benché non sia capace di giocare a calcio chiede ed ottiene di aggregarsi al gruppo, poiché per colpa loro il suo piano di fuga sta per andare in fumo. Colby si convince e ne giustifica quindi la presenza in squadra adducendo il motivo che ha bisogno di un preparatore atletico. Come gli altri ufficiali britannici avevano supposto, il comando tedesco, volendo trasformare l’evento in un veicolo di propaganda, toglie di mano a Von Steiner l’organizzazione dell’incontro. Von Steiner capisce subito che, a quel punto, la partita non avrà più significato sportivo e il comando tedesco metterà in atto qualsiasi stratagemma per vincere e conquistarsi il primato d’immagine di fronte agli Alleati.

 

 

La fuga di Hatch

Hatch prima di fuggire viene incaricato di mettersi in contatto con la Resistenza francese. Deve raggiungere quindi Parigi, dove alcuni partigiani, saputo che i tedeschi vogliono organizzare la partita allo stadio di Colombes, si adoperano per organizzare la fuga dei calciatori Alleati durante l’intervallo tra i due tempi: essi fuggiranno dai lavatoi, che comunicano direttamente con la rete fognaria, ben conosciuta dai membri della resistenza che lavorano nei servizi comunali. Occorre che qualcuno avverta la squadra del piano in atto: tocca ancora al canadese sacrificarsi: si lascia catturare di nuovo dai tedeschi vicino al campo di prigionia per essere sicuro di farsi rimandare allo stesso posto e di poter comunicare le informazioni sulla fuga a Colby. Il problema è ora farsi reinserire in squadra, ma egli non sa giocare a calcio ma solo a football americano. Colby avendolo visto parare in allenamento gli assegna il ruolo del portiere. Siccome tuttavia un portiere titolare esiste già, e il comando tedesco ha esonerato dal lavoro solo undici soldati per prepararsi all’incontro, il portiere viene convinto a lasciarsi rompere un braccio per giustificare la sua sostituzione con Hatch. Il giorno dell’incontro, lo stadio di Colombes è pieno di francesi, e decorato con i fregi della propaganda tedesca, in primis le bandiere con le croci uncinate. L’ambiente è chiaramente ostile ai tedeschi, e lo si nota maggiormente durante l’esecuzione dell’inno Deutschland über alles…: gli unici tedeschi nello stadio sono militari.

L’influenza della propaganda

Lo speaker, che commenta la partita a beneficio dei radioascoltatori, propone in sottofondo degli applausi preregistrati per dare l’impressione che la folla sia entusiasta della prestazione tedesca. Come paventato da Von Steiner, un pavido arbitro non è in grado di tenere in mano l’incontro in maniera imparziale e sorvola su numerose scorrettezze dei tedeschi, che infatti si portano in vantaggio fino al 4-0 prima che gli Alleati realizzino il gol della bandiera (con Brady su cross dalla sinistra). Al termine del primo tempo negli spogliatoi è tutto pronto: i resistenti parigini hanno rotto il tramezzo che separa i lavatoi dal tunnel di fuga, ma prima alcuni giocatori, poi anche Colby, rifiutano di scappare perché sono convinti di poter ribaltare l’incontro e vincerlo. I resistenti tentano di dissuaderli, poiché alla fine della partita non ci sarà più tempo per la fuga, ma ormai è diventata una questione d’onore per Colby e compagni, che riescono a convincere anche il riluttante Hatch.

La partita

Gli Alleati rientrano in campo e iniziano a giocare in maniera convinta e determinata, ricorrendo pure alla stessa durezza usata dai tedeschi nel primo tempo. Trascinati dall’entusiasmo degli spettatori francesi sugli spalti, riescono a portarsi prima sul 2-4 (grazie a Rey che realizza scartando anche il portiere), poi sul 3-4 (gol di Hayes su respinta del portiere), e si vedono annullare il gol del pari (di Hillson) per un presunto fuori gioco. A quel punto l’infortunato Fernandez (colpito in maniera durissima allo sterno durante il 1′ tempo) rientra in campo proteggendosi il petto con un braccio[3] e, su un cross di Brady, si esibisce in una spettacolare rovesciata che infiamma il pubblico e porta le squadre in parità sul 4-4. La bellezza del gesto tecnico entusiasma anche Von Steiner, che si alza ad applaudire sportivamente il gol, tra la silenziosa ma evidente disapprovazione degli altri ufficiali tedeschi in tribuna d’onore.

La conclusione

C’è ancora tempo per qualche schermaglia in campo e, all’ultimo minuto di gioco, un rigore totalmente inesistente viene assegnato ai tedeschi. Tra le proteste alleate, gli spettatori francesi intonano con fierezza la Marsigliese in segno di orgoglio e incoraggiamento. Il portiere Hatch e il capitano tedesco Baumann si trovano faccia a faccia e si fissano intensamente negli occhi per lunghi istanti. Hatch, fino a quel momento non impeccabile, vola a parare il rigore calciato dal semi-ipnotizzato Baumann. Lo stadio esulta e gli spettatori invadono il campo travolgendo le barriere intorno al terreno di gioco e superando le guardie armate. Nella confusione che si genera, i giocatori Alleati vengono portati via dalla folla e fuggono dagli ingressi principali. Il maggiore Von Steiner, dalla tribuna, osserva la scena con un’espressione di sportiva indulgenza, che fa da contraltare al disappunto dei gerarchi nazisti seduti poco distanti da lui.

Sport e propaganda del nazifascismo: non solo il calcio

L’uso propagandistico che  i regimi totalitari destra fecero dello sport ha avuto non pochi esempi. Segno, questo, dell’intuizione che tali regimi ebbero circa le potenzialità in termini di suggestione collettiva che le imprese sportive potessero produrre. Praticamente qualsiasi sport rientrò nel mirino della propaganda fascista e nazista, l’importante appunto era la sua porta giornalistica. Per cui Mussolini, oltre a fregiarsi dei due mondiali di calcio che l’Italia vinse di fila nel 1934 e nel 1938, sfruttò non poco le imprese pugilistiche di Primo Carnera, il primo campione mondiale italiano dei massimi della storia del pugilato italiano. Hitler, invece, ebbe meno fortuna, alla luce degli eventi organizzati dalla stessa Germania nazista. I nazisti, interdetti gli ebrei dalla possibilità di partecipare, organizzarono un lunghissimo e meticoloso periodo di preparazione che si concluse con tre mesi massacranti per gli atleti nella Foresta Nera. Il lavoro diede i suoi frutti: i risultati per i nazisti furono strepitosi: per i tedeschi 36 medaglie d’oro, 12 in più degli Stati Uniti e primo posto nel medagliere. Terzi e quarti italiani e giapponesi davanti a francesi ed inglesi: i regimi nazi-fascisti battevano le democrazie su tutta la linea. Anche in virtù di quel trionfo i nazisti poterono apportare delle “prove” in supporto alle teorie sulla superiorità della razza ariana di Fichte e a quella del Superuomo di Nietzsche, abilmente manipolate e strumentalizzate da Hitler. In effetti ci fu un’eccezione che macchiò in parte quella grande affermazione nazista: si chiamava Jesse Owens. Un nero americano, considerato dai nazisti di razza inferiore, che dominò ben quattro gare di atletica tra cui i 100 metri piani e mandò su tutte le furie Hitler che, secondo alcune voci, fu costretto a fuggire dallo stadio per non dovergli stringere la mano dopo le vittorie. Tuttavia quell’imprevisto non scalfì la portata del trionfo nazista la cui celebrazione fu affidata a Leni Riefenstahl, la regista ufficiale del Terzo Reich e del Nuovo Ordine nazista fin dal 1933, che provvide a oscurare il più possibile Owens. Grazie a più di trecento ore di riprese e dopo un lavoro di tre anni, la Riefenstahl produsse il più grande omaggio della storia allo sport: Olympia. Il film esaltava con aloni misticheggianti la perfezione della razza ariana attraverso la sublimità e la bellezza del corpo e del gesto degli atleti, una bellezza antica che ritornava in vita grazie ai campioni del Reich. Nell’orbita della disonesta propaganda nazista s’iscrive anche la vicenda del pugile Johann Trollmann  di origine sinti, che  durante la sua carriera pugilistica verrà poi soprannominato anche Gibsy, “zingaro”, soprannome che si farà cucire sui pantaloncini con cui saliva sul ring.Vinse il campionato della Germania del sud e divenne membro della BC Heroes di Hannover, boxe club fondato nel 1922. Durante l’adolescenza vinse molti altri campionati regionali, ottenne il titolo di campione della Germania del nord, e partecipò a campionati per pugili amatoriali. Nel 1928 partecipò alle selezioni per le Olimpiadi di Amsterdam, da cui venne poi scartato perché, essendo sinti, non poteva rappresentare la Germania nei giochi olimpici. Dopo di ciò, Trollmann si unì alla più nota associazione sportiva dei lavoratori di Hannover, la BC Sparta Linden. I giornali lo diffamarono spesso per via delle sue origini, chiamandolo Gipsy, “zingaro”, ma anche criticandolo per il suo stile del tutto nuovo, quasi danzante.( fonte consultata : http://storiaepolitica.forumfree.it/)

Fonti Bibliografiche:

-Martin, Simon, Calcio e fascismo, Milano, Oscar Mondadori, 2006.

Shirer, William L., Storia del Terzo Reich, Milano, Fabbri Editori, 1978.

Roger Repplinger, Buttati giù zingaro. La storia di Johann Trollmann e Tull Harder, Upre Roma, 2013.

Mauro Garofalo, Alla fine di ogni cosa, Frassinelli, 2016.

Dario Fo, Razza di zingaro, Chiarelettere, 2016.